La falsa evasione e l’internamento infinito

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Il 2 novembre 2025, Elia Del Grande si è allontanato dalla Casa di lavoro di Castelfranco Emilia. Alcuni quotidiani hanno prontamente titolato che è evaso da una comunità, è falso: Del Grande, dopo avere scontato la sua pena, dopo ben 26 anni di detenzione, invece di essere libero, come sarebbe accaduto in un paese in cui non vige un Codice penale autoritario scritto dal legislatore fascista, si trovava rinchiuso in una “casa di lavoro”.

Cosa sono le case di lavoro? Sono istituzioni in cui si eseguono le misure di sicurezza, ovvero, luoghi, in tutto uguali a carceri – di cui spesso altro non sono che sezioni – in cui una persona, che ha finito di scontare la pena, si trova recluso per un tempo indeterminato, perché ritenuto da un giudice “socialmente pericoloso”.

La persona a cui la sorte ha distribuito le carte sbagliate, negli anni oscillano tra 200 e 300 in tutta la penisola gli sfortunati e sono sempre meno di dieci le sfortunate, passa da essere detenuto ad essere “internato”, condizione ancor meno tutelata, con ancor meno diritti e quasi senza alcuna speranza. Perché in casa di lavoro finisci normalmente quando il contesto sociale da cui provieni e dove si presume che potresti tornare è considerato marginale, quando non hai una casa, non hai un lavoro o forse non hai entrambi. E difficilmente queste condizioni potranno migliorare durante l’internamento; così, di proroga in proroga, questa limitazione della libertà, tanto pervasiva, può durare per anni. Altro che certezza della pena tanto sbandierata solo quando si vuole invocare la forca e il buttare via la chiave, qui la pena è incerta e potenzialmente perpetua.

Nella lettera inviata a VareseNews alcuni giorni fa, Del Grande descrive con grande precisione la realtà delle case di lavoro: «ci sono persone all’interno che sono entrate per sei mesi e avendo l’unica colpa di non avere una dimora e una famiglia, si trovano internate da 4/5 anni, in un Paese civile e al passo con le regole europee, questo non dovrebbe più esistere».

L’istituzione è fondata sull’ideologia dell’arbeit macht frei (il lavoro rende liberi), un’ideologia assolutamente discutibile, ma che non si trova neppure l’occasione di poter discutere, perché il lavoro in casa di lavoro non c’è, quando c’è è poco pagato e poco qualificato, per di più si tratta di quelle mansioni “domestiche”, lavori utili all’ordinario mantenimento della struttura, che vengono svolte in ogni carcere e a cui detenuti e internati accedono con un sistema di turnazione. Come afferma del Grande: «l’attività lavorativa è identica a quella dei regimi carcerari».

Le voci delle persone internate e di chi nelle case di lavoro svolge la sua professione, che avevamo raccolto – con Grazia Zuffa – nella ricerca e nel volume della Società della Ragione Un ossimoro da cancellare (edizioni Menabò), riportano tutte quello stesso senso d’ingiustizia che esprime oggi Del Grande rispetto a quell’istituzione senza fine, nella duplice accezione di senza scopo e senza conclusione.

L’evasione di Del Grande è stata colta subito, da alcuni, come l’ennesima occasione per chiedere un ritorno indietro sulla riforma che ha previsto il superamento degli OPG, che pure con questo caso non c’entra assolutamente nulla. Del Grande non era in REMS né in comunità terapeutica, ma si sa, per alcuni, ogni contesto è buono per esprimere un po’ di sana nostalgia manicomiale. Di una riforma, però, c’è davvero bisogno, certo non quella invocata dal sindacato autonomo di polizia penitenziaria per riaprire gli OPG, ma la riforma che finalmente cancelli la casa di lavoro, perché Del Grande, scontata la sua pena, doveva avere il diritto che ognuno dovrebbe poter avere di essere libero.

Il testo della riforma c’è già: la proposta di legge n.158 presentata alla Camera dei deputati  dall’on. Riccardo Magi.

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