“Nel mondo, tanti tipi di famiglia. Nessuna è naturale”

Ci sono nel mondo tanti tipi di famiglie e nessuna di queste – secondo l’opinione di antropologi e sociologi – è “naturale”. È anche vero che la tendenza a costituire all’interno delle società aree più ristrette di convivenza è un tratto praticamente universale. Non appena la società assume certe dimensioni, è come se tra la singola persona (chiamiamolo “io”) e la società più vasta (un “noi” collettivo) si avvertisse la necessità di costruire un luogo intermedio, un noi più intimo e, appunto, famigliare: una sorta di rifugio o di ponte tra la solitudine dell’io e il carattere pubblico del noi. 

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Recitare e scambiare

Il noi sociale e collettivo può essere una sorta di teatro, una scena pubblica in cui gli io sono tenuti a recitare i loro diversi ruoli. Dal sociologo Erving Goffman all’antropologo Victor Turner, sono molti coloro che hanno concepito la vita sociale come una continua recita. Clifford Geertz, nella sua analisi della vita sociale a Bali, ha messo in luce l’importanza del concetto di lek, di solito tradotto con “vergogna”, e che egli rende con l’espressione più precisa di “paura del palcoscenico”.  Vi è anche chi, invece, ha interpretato la vita sociale in termini di scambio, un continuo offrire, dare, ricevere, contraccambiare non soltanto come commercio, ma anche come dono. I francesi Marcel Mauss e Claude Lévi-Strauss sono gli antropologi che più di altri hanno insistito su questo aspetto.

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Recitare e scambiare sono comportamenti diversi e tuttavia hanno degli elementi in comune: tutti gli autori citati alla fine sono costretti ad ammettere lo stress della vita sociale. Di qui il carattere pressoché inevitabile di luoghi in cui lo stress si attenua, dove gli io possono smettere, almeno in parte, di recitare e di scambiare pubblicamente, e dove essi possono guadagnare un certo grado di intesa e di intimità. Luoghi di più intima partecipazione e convivenza. 

Una forma fuori dal comune

Di recente un libro curato da Pietro Veronese – un giornalista che per molto tempo ha frequentato e conosciuto da vicino diverse parti dell’Africa sub-sahariana – dal titolo La famiglia. Una storia ruandese (Edizioni e/o, 2024) illustra una forma di famiglia davvero fuori dal comune. Per diversi anni, l’autore ha raccolto le storie di vita dei componenti di una di queste “famiglie di elezione”, nate in Rwanda negli anni successivi al genocidio, ossia il massacro dei Tutsi e degli Hutu moderati verificatosi tra il 7 aprile e il 4 luglio del 1994. I componenti sono ragazzi e ragazze, bambini e bambine sopravvissuti al massacro ma privati, nel volgere di pochi giorni, di padri, madri, fratelli, sorelle e parenti. È stato proprio nell’abisso del Rwanda post-genocidio che giovani, perlopiù studenti, hanno avvertito la necessità di istituire tra sopravvissuti legami più forti, intimi e profondi di quelli che potrebbero essere offerti da un’associazione. 

“Qualcuno – leggiamo nel libro di Veronese – ebbe l’idea di riunire” alcuni sopravvissuti “in famiglie sia pure fittizie, ma per convenzione comune vissute come tali”. Non si tratta dunque di legami coniugali o parentali, semmai sono rapporti che nascono da una famiglia inventata, finta (nel senso etimologico del termine latino fingo, modellare, costruire). In molte culture africane tradizionali troviamo in effetti molte finzioni culturali di cui si è socialmente consapevoli, che rispondono tuttavia a bisogni profondi di solidarietà. 

Questi nuclei colmano un vuoto: chi ne fa parte si aiuta a vicenda nella progettazione del proprio futuro

Tra passato e futuro 

Proprio in quanto finzioni è necessario chiedersi quali siano i legami che fanno nascere queste famiglie. La risposta è duplice, nel senso che per un verso riguarda il passato, per l’altro il futuro. Per usare le parole di Veronese, ciò che unisce i componenti di queste famiglie è la “memoria condivisa e terribile” della loro esperienza di sopravvissuti, di bambini e di giovani “rimasti praticamente soli al mondo”: una memoria che può essere condivisa soltanto con chi ha vissuto la medesima tragedia. 

Le famiglie di elezione non sostituiscono le famiglie coniugali, non danno luogo a gruppi domestici stabilmente fissati in un determinato luogo; inoltre, molti dei componenti sono mariti o mogli nelle loro rispettive famiglie coniugali. Le famiglie di elezione sono, per così dire, aggiuntive: colmano un vuoto che altri tipi di famiglie non potrebbero riempire. Attraverso la condivisione della memoria, chi ne fa parte si aiuta a vicenda nella costruzione della loro vita, nella progettazione del loro futuro, tra cui le loro nuove famiglie. 

Pietro Veronese ha conosciuto di persona una di queste famiglie, che si è costituita in Italia. I componenti gli hanno trasmesso i ricordi della loro esperienza. Ha un padre e una madre di elezione, e ha pure un nome, Igihozo, termine che nella lingua rwandese indica tutto ciò che di solito si fa a un bambino – carezze, ninna nanna ecc. – perché non pianga più. Di questa famiglia Pietro Veronese è divenuto membro onorario.

Da lavialibera n°27

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