I crimini ambientali danneggiano le comunità e i responsabili restano impuniti

I crimini ambientali danneggiano le comunità e i responsabili restano impuniti
Nel settembre 2022 la relazione finale della commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo di rifiuti e gli illeciti ambientali ad essi connessi (la commissione Ecomafie) ci ha consegnato un quadro piuttosto deprimente dello stato dell’ambiente in Italia. La relazione affrontava una serie di questioni assai rilevanti: l’emergenza epidemiologica covid-19 e il ciclo dei rifiuti; la diffusione delle sostanze perfluoroalchiliche (Pfas); le bonifiche e la gestione dei rifiuti all’ex Ilva a Taranto; l’evoluzione del fenomeno degli incendi negli impianti di gestione di rifiuti e altro ancora. Il quadro tratteggiato dalla commissione era ricco, ma allo stesso tempo parziale.

Aree inquinate e salute in pericolo

Per avere un’idea meno approssimativa dei disastri ambientali prodotti da un utilizzo sconsiderato delle risorse naturali, è utile esaminare anche le pubblicazioni dell’Istituto superiore di sanità (Iss) che periodicamente fa il punto sui siti di interesse nazionale (Sin), che si estendono complessivamente per una superficie pari a 170mila ettari: Porto Marghera (Venezia), Casale Monferrato (Alessandria), Taranto, l’area industriale di Porto Torres in Sardegna, il polo petrolchimico di Priolo (Gela) e altri luoghi ancora. Sono soprattutto aree industriali inquinate o in corso di riconversione, interessate da attività produttive e estrattive di amianto, porti, aree oggetto in passato di incidenti con rilascio di inquinanti chimici, ex miniere, cave, discariche abusive.

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Zone in cui sono periodicamente monitorati lo stato di degrado dell’ambiente e la salute di chi vive in quelle zone. Si tratta di situazioni che mettono in pericolo intere comunità, tuttavia è raro che siano rappresentate nel discorso pubblico e mediatico come “emergenze” alle quali occorre rispondere in modo deciso. Di disastri ambientali si parla poco e spesso sono descritti come esiti di occorrenze imprevedibili, del fato o di una natura matrigna. Eppure, se prendessimo seriamente in considerazione le attuali e future vittime di questi disastri (vittime umane e non), ci renderemmo conto che la salvaguardia dell’ambiente e la sua tutela sono le questioni più urgenti con le quali dobbiamo fare i conti.

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All’origine, il profitto

Non è un compito semplice, ma è certamente necessario e urgente. In primo luogo bisogna dare un nome corretto al problema: non è colpa di una natura matrigna che si ribella all’uomo oppure di un destino cinico e baro che sconvolge le vite di intere comunità. I danni ambientali sono spesso l’esito di un sistema di produzione che ha come obiettivo prioritario la riproduzione di sé stesso, attraverso una logica ottusa e miope di sfruttamento delle risorse ritenute infinite. Altrettanto complessa è poi la definizione delle responsabilità (singole o collettive), la valutazione di chi è coinvolto come vittima e le attività di regolazione e contrasto necessarie.

Tutte questioni complicate dal fatto che gli effetti negativi non sono percepibili nell’immediato, ma possono presentarsi a distanza di molti anni dalla chiusura di attività industriali inquinanti. Ne è un esempio l’inquinamento da amianto. A distanza di oltre trent’anni dalla legge che l’ha messo al bando in Italia (la legge 257/92), ancora genera vittime e non solo tra coloro che hanno lavorato negli stabilimenti di produzione, anzi: data la lunga latenza tra esposizione al rischio ed insorgenza delle patologie, oggi ad ammalarsi sono soprattutto cittadini che hanno vissuto in contesti contaminati.

Pochi giorni, al termine della sua requisitoria nel processo Eternit bis in corso davanti alla Corte d’assise di Novara (un procedimento che valuta le responsabilità del magnate svizzero Stephan Schmidheiny, accusato di omicidio plurimo e pluriaggravato), il pubblico ministero ha chiesto la condanna all’ergastolo con isolamento diurno, cioè il massimo della pena possibile. La pubblica accusa sostiene che il proprietario dell’Eternit fosse consapevole della pericolosità delle lavorazioni con amianto, ma questa consapevolezza non lo ha convinto ad abbandonare la materia o ad adottare tutti gli accorgimenti necessari.

Al di là di quelle che saranno le valutazioni della corte nel merito, ciò che ci pare rilevante sottolineare qui è lo stupore con cui alcuni hanno reagito a questa richiesta, una richiesta che appare straordinaria e che in effetti ordinaria non è.

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La natura ambivalente dei comportamenti

I comportamenti che generano danni ambientali enormi e un numero imprecisato di vittime hanno una natura ambivalente. Tra le caratteristiche, possiamo dire che:

producono danni ingenti ma spesso di non immediata evidenza;

sono l’esito di attività perfettamente lecite;

i loro responsabili godono di un grado elevato di rispettabilità sociale;

le vittime non hanno piena contezza che stanno subendo un danno.

In sintesi, hanno contorni incerti e sono difficili da inquadrare. Ciò implica una difficoltà di riconoscere gli effetti dannosi di tali attività come esiti di comportamenti criminali e di percepirsi come vittime di tali comportamenti. Sono “lawful but awful”, leciti ma terribili, usando l’espressione creata da Nikos Passas (2005).

L’inquinamento da amianto è solo uno dei molti casi che nella letteratura specialistica sono denominati con un’espressione efficace “slow disasters” (Knowles, 2019), effetto di processi di lungo periodo che legano i destini di territori e comunità nel passato, nel futuro e tra le generazioni (le conseguenze del cambiamento climatico ne sono un esempio emblematico).

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Definire per poter agire

Si tratta allora di entrare nel merito di questi comportamenti e cercare di nominarli in modo corretto. Il problema delle definizioni è cruciale nel contesto dei crimini ambientali, poiché è in grado di condizionare il processo di ricerca, la stima sull’estensione del fenomeno, la magnitudo dei danni e, non ultimo, le attività di regolazione e repressione necessarie.

Se la criminalità ambientale è un tema di interesse criminologico relativamente recente, l’attenzione verso questo campo ha le sue radici nel pionieristico contributo del criminologo statunitense Edwin Sutherland che in una serie di articoli, apparsi tra il 1940 e il 1949, elabora il concetto di white collar crime, per indicare “il reato commesso da una persona rispettabile e di elevata condizione sociale nel corso della sua occupazione”. Era una sfida diretta al pensiero criminologico del suo tempo, poiché mette in discussione lo stereotipo del criminale e tutte quelle teorie per le quali il comportamento delinquenziale era dovuto a precedenti condizioni di marginalità, esclusione sociale, povertà o patologie (personali o sociali).

Sutherland ha inaugurato un nuovo campo di studi sul crimine, su cui si è presto acceso un vivace dibattito. Un elemento però accomuna le diverse posizioni sviluppate nel tempo, ed è la consapevolezza che la definizione di crimine varia in ragione del tempo, del luogo e della cultura, ma anche dello status sociale e del ruolo dei soggetti coinvolti. Ciò significa anche che sono maggiormente criminalizzati i comportamenti delle persone cosiddette marginali, mentre si tenderà a essere più indulgenti verso chi detiene posizioni di prestigio e rispettabilità sociale.

Guardare a ciò che in una società viene definito come criminale, a quali strategie sono adottate per contrastare (o non contrastare) i comportamenti dannosi e in che modo “i potenti” riescono ad allontanare da sé lo stigma per i loro gesti, consente quindi di abbandonare uno sguardo ingenuo e “dato per scontato” sulla società.

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Le prospettive green nella criminologia

Dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso molti studiosi hanno iniziato ad affrontare gli effetti dannosi dei comportamenti umani sull’ambiente come questione criminale, avviando una prospettiva green nella criminologia. Tra questi, va citato il lavoro di Nigel South, ideatore stesso della green criminology.

È una tradizione di studi e ricerche ora molto ricca, che si basa su un’idea di giustizia ampia e inclusiva, in grado di mettere in discussione i rapporti di potere e gerarchia che spesso rendono difficile riconoscere le componenti criminali dei comportamenti considerati. La sfida è tenere insieme il riconoscimento delle diseguaglianze, dei rapporti di dominio e delle forme di razzismo sia nella relazione tra gli esseri umani e gli animali non umani, sia nella stessa comunità umana.

Un’altra prospettiva è quella che connette la giustizia ambientale con la giustizia ecologica, con l’obiettivo di analizzare le conseguenze dei comportamenti criminali non solo nei confronti degli esseri umani, ma anche nei confronti degli animali non umani e degli ecosistemi in generale. È un elemento cruciale della proposta teorica della Climate change criminology di Robert Douglas White.

Quest’ultima si poggia su quattro temi che forniscono altrettante lenti per interpretare i crimini ambientali, in questo caso in particolare il cambiamento climatico:

In primo luogo, il rilievo criminale di un atto deve essere valutato in relazione al danno che questo produce, a prescindere dalla sua definizione giuridica. In tema di crimini ambientali questo ragionamento è cruciale: spesso i danni all’ambiente sono considerati “accettabili” perché conseguenze di attività economiche che producono benefici. Per dirla in modo diverso, la protezione dell’ambiente si colloca su una bilancia tra opposti interessi (ad esempio lavoro e salute) che giustificano una certa quantità di inquinamento per raggiungere altri obiettivi ritenuti prioritari.

Un secondo tema è la necessità di una prospettiva in grado di cogliere la dimensione globale dei comportamenti e la loro interconnessione. Ovviamente il cambiamento climatico e il riscaldamento globale sono per definizione fenomeni che investono l’intero pianeta. Tuttavia, ad essere diverso è l’impatto ecologico e sociale. È opinione comune tra gli scienziati che le conseguenze più gravi del cambiamento climatico riguardino i paesi e le zone del pianeta che meno hanno contribuito a esso e che si presentano meno attrezzate a fronteggiarlo.

Una terza questione riguarda l’individuazione delle cause e le concrete conseguenze del cambiamento climatico. Ciò significa affrontare, da una parte, la questione della responsabilità (e dunque della colpevolezza) e, dall’altra, interrogarsi su chi è la vittima.

Infine, White riserva una riflessione a sé sulle condizioni strutturali insite nel modello di sviluppo capitalistico e tardo capitalistico che hanno determinato e determinano lo sfruttamento incondizionato di risorse e la messa in pericolo degli ecosistemi e della stessa sopravvivenza dell’uomo. Le grandi corporation, spesso supportate dalle azioni dei governi, non solo hanno tratto un profitto considerevole da pratiche economiche predatorie, ma sono riuscite ad allontanare da sé la responsabilità per le conseguenze di tali azioni.

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Se guardiamo, come suggerito da White, al modo in cui i responsabili dei danni ambientali riescono ad allontanare da sé la reazione sociale o la sanzione formale, troviamo:

La negazione della responsabilità: il cambiamento climatico è un fenomeno naturale che non deriva dall’azione dell’uomo;

La negazione del danno: i disastri ambientali sono eventi ciclici nella storia evolutiva del pianeta e pertanto naturali;

La negazione della vittima: le conseguenze disastrose dell’inquinamento, soprattutto nei paesi più poveri, non sono affatto il risultato del sistema di produzione predatorio ma, piuttosto, dell’incapacità di quei paesi di stare al passo;

La condanna di chi ti condanna: attacchi e tentativi di delegittimare gli scienziati che si occupano di cambiamento climatico;

L’appello a più alti ideali: gli interessi dell’economia devono prevalere sul resto perché essenziali alla sopravvivenza economica o alla supremazia del proprio paese.

Il risultato netto è l’incapacità (la non volontà) di affrontare i fattori chiave che contribuiscono ad aggravare la situazione, mentre eventuali critiche sono sfidate attraverso tecniche di greenwashing  utili, da un lato, a preservare la rispettabilità degli attori coinvolti e dall’altra, a tacitare le proteste dei gruppi ambientalisti.

Il greenwashing, in quest’ottica, può essere considerato un’ulteriore tecnica di neutralizzazione, parte integrante della retorica pubblica sui temi ambientali, che alimenta la falsa rappresentazione delle imprese e dei governi come attori preoccupati delle questioni green.

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In conclusione: cosa può fare la ricerca

Queste riflessioni riguardano tutti i crimini che producono danni ambientali ingenti, su cui occorre una presa di posizione, o meglio, un posizionamento non ambiguo.

Vincenzo Ruggiero individua proprio nell’attivismo politico la cifra distintiva della green criminology, un impegno che – secondo Heckenberg e White – deve essere ancorato alla ricerca empirica in particolare su come i crimini ambientali e i danni associati sono presentati e discussi sul piano pubblico e politico e sul sapere delle “persone comuni” (lay knowledge), le vittime, che si confrontano quotidianamente con un crimine ambientale che colpisce l’ambiente in cui vivono. In questo caso, come ho avuto modo di scrivere poco tempo fa (Altopiedi, 2022), occorre “prendere le comunità sul serio” ossia costruire progetti con (e non su) le comunità contaminate, non per dare loro voce, ma per costruire insieme percorsi di ricerca e modelli di intervento.

Altri oggetti di indagine dovrebbero essere poi “discorsi sulle vicende giudiziarie”, i “discorsi mediatici”, e così via. Ma, come ricorda la studiosa Ragnhild Sollund il ruolo della criminologia critica, o criminologia radicale, non è solo quello di descrivere e analizzare i crimini e i danni commessi dai potenti, siano essi stati, corporation, o più in generale il sistema capitalistico. Lo scopo è quello di trasformare il sistema esistente e la sua diseguale distribuzione di potere e ricchezza, rigettando la criminalizzazione degli strati più marginali della società a favore di una più equa distribuzione di potere e di diritti.

Riferimenti bibliografici

Altopiedi R., (2022), I crimini ambientali, in Devianza e questione criminale. Temi, problemi e prospettive, a cura di Tamar Pitch, Carocci, Roma, pp. 169-188.
Altopiedi R., (2022), Prendere le comunità sul serio. La ricerca in campo ambientale “con” le comunità interessate, in Flussi e comunità: tra rischio ambientale e governo della salute pubblica, a cura di Stefania Ferraro e Antonello Petrillo, numero monografico della rivista Cartografie Sociali, n. 14, dicembre 2022, pp. 17-36.
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Ruggiero V., South N., (2010), Critical Criminology and Crimes against the Environment, in “Critical Criminology”, 18, pp. 245-50.
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Stretesky P., Long M., Lynch M. (2013), The Treadmill of Crime: Political Economy and Green Criminology, Routledge, London.
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