Elezioni, amara Calabria

Elezioni, amara Calabria
In mano alla ‘ndrangheta, in mano alla massoneria deviata, in mano a vecchie e nuove lobby politiche, economiche e finanziarie, tutte coalizzate per spolparle le ossa, che quelle sono rimaste. In mano pure a Satana… Croce, dunque, sulla Calabria che galleggia in un pericoloso deficit di legalità. Ma è davvero la ‘ndrangheta la madre di tutti i problemi del mancato sviluppo? Oppure anch’essa è figlia di una storia plurisecolare d’abbandono? E quanto è completo il suo racconto?
 

C’è una tendenza a estremizzare tutto quel che avviene a queste latitudini. È la cifra di come vanno le cose, una regola di successo, a cui pochi si sottraggono, secondo la quale bisogna usare tinte forti nel raccontare la Calabria. Senza edulcorazioni linguistiche. Anche quando i fatti parlano da soli. Anche nella lotta alla mafia, perché non c’è memoria della mafia e dell’antimafia. Ogni settimana si legge di inchieste nuove e rivoluzionarie, ogni volta è come se si scoprissero le carte per la prima volta. Prendiamo l’inchiesta Rinascita-Scott, che di per sé nei numeri e nella ipotesi accusatoria svela scenari cupi e mette nuovamente al centro di trame criminali il ruolo di uomini delle istituzioni che vanno a braccetto con poteri occulti e crimine organizzato, per cui non avrebbe bisogno di enfatizzazioni. Ma chi si ricorda di altre inchieste ormai storiche con numeri identici quando non superiori su mafiosi e manutengoli, incappucciati e barbe finte, politici corrotti e corruttori, che hanno saccheggiato e messo a ferro e fuoco la regione nell’ultimo quarto del secolo passato e oltre? Senza memoria prevale l’attualità. E così da anni si assiste a una affannosa ricerca mediatica nel dare della Calabria una rappresentazione crescente di alterità.

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Cinici o incantati, troppi pregiudizi

Bisogna domandarsi quanto è dovuto agli occhiali deformanti del pregiudizio che c’è – grande, antico, storico, difficile da scardinare (anche Giuda era calabrese e calabrese era pure chi inchiodò Cristo alla croce!) –, se questa regione è ancora vista come un inferno in terra, come un altrove, socialmente e geograficamente lontana, ultima, irrecuperabile. Sta di fatto che, tra affarismo, clientele, criminalità granghignolesca e un sistema di potere che divora le risorse pubbliche, troppe mani predatrici la ghermiscono da tempo portandola all’anticamera del soffocamento economico e sociale. 
Per cui, davanti alla lenta dissoluzione delle istituzioni locali e non solo, alla progressiva dequalificazione della rappresentanza politica e al crollo di ogni riferimento sociale, si può anche comprendere – ma non giustificare –  l’esercizio di giornalisti che s’improvvisano sociologi, i quali, nel tentativo di collegare la realtà alle parole, fanno a gara a chi è più bravo nel trovare una definizione forte, estrema, per definire il male non tanto oscuro che opprime la Calabria. Si assiste, così, a un florilegio di aggettivi definitori: regione aspra, inquieta, trascurata, abbandonata, derelitta, disgregata, criminale, dimenticata e chi più ne trova più ne mette. 

Dopo la morte di Jole Santelli, si vota per il nuovo Consiglio regionale che anche nell’ultima legislatura è stato interessato da arresti per mafia

E se non appare politicamente corretto definirla maledetta, come pure è stato fatto, allora si dice che è una regione perduta e irrecuperabile, dove la malagestione diventa malaffare. Contro tanta gravità descrittiva che, a ragionarci un po’, non è una conseguenza dell’antico pregiudizio ma può essere anche, in verità, un esercizio letterario esasperato, solitamente si scagliano, con altrettanta violenza verbale, guarnigioni di tutori dell’idea di una Calabria agli antipodi, vista con gli occhi di François Deseine (“piena di meraviglie della natura… come d’antichità”) o di Gabriele Muccino col suo corto inguardabile. 

40 anni fa la ‘ndrangheta uccideva il consigliere comunale del Pci a Rosarno, Peppe Valarioti. Gli stessi personaggi di allora sono oggi nelle più importanti indagini antimafia

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Il dopoguerra, ancora oggi

Non tralascia, però, di aprire gli occhi sulla realtà l’economista dell’Università della Calabria Rosanna Nisticò che, su solide basi statistiche, l’ha classificata come l’ultima regione della penisola non tanto per fatto geografico bensì per qualità della vita, produzione della ricchezza e soprattutto estrema disoccupazione. Un’endemica mancanza di lavoro che costringe braccia e cervelli a una nuova fuga, drenando così la base demografica del capitale giovanile che avrebbe potuto essere attore del cambiamento. D’altra parte, basta dare uno sguardo alle serie statistiche degli ultimi decenni e alle indagini socio-economiche recenti per rendersi conto che la Calabria di oggi presenta tutti quei caratteri sventurati del dopoguerra che nel 1943 sconfortarono gli anglo-americani appena sbarcati in regione e che dubitarono di poterla salvare.

Quel dopo guerra si è prolungato fino a oggi, aggravato da un divario civile dal resto del Paese, anche per mancata programmazione degli investimenti, nonostante le non poche risorse rovesciate da Roma e negli ultimi decenni anche da Bruxelles. Risorse destinate alla modernizzazione ma dissipate da politiche miopi e clientelari, grazie alle quali la ‘ndrangheta, che restituisce consenso, s’è ingrassata e ha creato sconquassi sociali. L’intervento della vituperata Cassa del Mezzogiorno, se si pensa, in qualche modo è stato incisivo nella trasformazione strutturale.

Ma l’eredità di cinquant’anni di (mal)governi regionali con cui confrontarsi è ancora, nella sostanza, quella del 1943. E cioè, una regione – con la “r” minuscola – che come allora, con i dovuti rapporti, è disarticolata, carente di infrastrutture di base, con i collegamenti penalizzanti, un’industria che salvo alcune eccellenze del settore alimentare resta ancora allo stato infantile e un’agricoltura senza imprenditori, stretta nella morsa dei vincoli comunitari e dell’incapacità sistemica di programmazione dei governi regionali. Una regione, infine, senza concrete garanzie sociali, se solo si pensa a quel che resta del servizio sanitario, con disavanzi colossali e servizi assistenziali scadenti, utilizzato per carriere politiche, fatto a misura di predatori economici e in camice bianco, da dieci anni affidato a commissari governativi, qualcuno inquisito, che non risolvono nulla quando non aggravano l’esistente.

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Una Regione nata da un compromesso al ribasso

Ci mancava solo la pandemia per acutizzare ancora di più un quadro già di per sé fosco, anche perché i commissari non hanno nemmeno presentato uno straccio di piano anti-covid e le vaccinazioni vanno così a rilento che regalano alla regione l’ultimo primato negativo: con questo ritmo ci vorranno otto anni – è il risultato di una ricerca – per vaccinare tutti i calabresi!
Nulla è mutato, dunque. Questa è la Calabria stagnante, così ce la consegnano cinquant’anni di Regione – con la “R” maiuscola – che hanno contribuito ad alimentare il senso antico di separatezza intraregionale e dal resto del Paese.

Si è costretti a prendere atto che sono diverse le Calabrie percepite e raccontate, come diverse sono le Calabrie territoriali che la nascita della Regione avrebbe dovuto plasmare e condurre a unità. Ma quel che in un’epica del regionalismo avrebbe dovuto rappresentare il mito della creazione, per la Calabria diventò il fattore primigenio di una nuova frammentazione sociale. Questa Regione, infatti, è nata malata: l’idea nobile di trasformare le Calabrie in Calabria, in seguito alla rivolta dei Boia chi molla, di fatto venne affossata in un quadro di compromesso politico al ribasso che ha avallato antiche separatezze, con il Governo regionale a Catanzaro e il Consiglio a Reggio, creando così una nuova situazione di polverizzazione, fonte di nuovi sprechi e di intrallazzi, dove è accaduto che le scelte pubbliche siano state il frutto di quelle private e magari criminali. 

Senza memoria prevale l’attualità: chi ricorda le inchieste, con numeri identici a Rinascita-Scott, su mafiosi, massoni, spie e politici corrotti?

Questa storica fragilità sociale e istituzionale finisce obiettivamente per favorire l’economia criminale della ‘ndrangheta-impresa e fa della Calabria una terra difficilmente recuperabile a meno di uno shock economico che nessuno per ora si è sognato e si sogna di mettere in atto. Se non negli slogan elettorali che nascondono un vuoto di idee e di obiettivi da perseguire. In questo contesto frutto di uno sviluppo distorto e incontrollato, dopo la recente scomparsa della presidente in carica Jole Santelli, si va al voto per eleggere il nuovo presidente della Regione e il nuovo Consiglio regionale che anche nell’ultima legislatura è stato interessato da arresti per mafia. Se non proprio un “padre della patria”, cosa che puzzerebbe di vuota retorica (“sventurata la terra che ha bisogno di eroi”, diceva Bertolt Brecht), la Calabria cerca ora il salvatore che non ha ancora trovato. Ci hanno provato in tanti –  qualcuno con un serio progetto di sviluppo azzoppato dalla sua stessa maggioranza – a dare un futuro a questa regione che non fosse quello di Cenerentola del Paese.

Il collettivo Valarioti: “Fate votare via posta gli studenti fuorisede”

La tragicommedia elettorale

Quale sarà, adesso, il comportamento dei calabresi che andranno a votare e a scegliere? Anche per loro c’è una letteratura giornalistica che ciclicamente, in maniera immaginifica, li vuole prossimi alla rivoluzione. Polveriera, bomba sociale pronta a esplodere ma che non esplode mai. E quando non in punto di rivoluzione, li indica tutti collusi o compiacenti con la ‘ndrangheta. 

Questo periodo così difficile – e non solo per la pandemia che ha messo in ginocchio la già fragile economia regionale con 42mila occupati persi, peggioramento delle prospettive occupazionali, calo del Pil dell’8,9 per cento nell’anno nero – imporrebbe scelte ragionate su programmi chiari. Si continua ad assistere, invece, alla solita tragicommedia da teatrino d’oratorio con personaggi navigati, spolverati e riverniciati, populisti, masanielli di mestiere, narcisi autoreferenziali, personaggi che puntano di fatto alla loro perpetuazione e all’occupazione eterna del potere.

Ultima per qualità della vita, ricchezza e lavoro, la Calabria presenta quei caratteri che nel 1943 sconfortarono gli alleati appena sbarcati

Calabria, paese e gente difficile, diceva Corrado Alvaro. Cosa potrebbe aiutare la regione a uscire dal pantano lo ha indicato con parole semplici e dirette il vescovo di Cassano allo Jonio Francesco Savino: liste trasparenti, programmi concreti, personalità competenti e figure pulite, “che non siano strette in ingranaggi particolari che possano sfuggire, anche se momentaneamente, alla giustizia e alla verità e che incoraggino, con il loro operato, lo sviluppo integrale di persone e territori”. Che non abbiano, cioè, oscuri legami, non abbiano da spendere solo il loro personaggio, non siano maschere. Il guaio è, però, che per quel che si è visto in questa vigilia elettorale, in cui si (auto)promuovono uomini ma non idee, non sembra affiorare ancora una consapevolezza di scelte capaci di cancellare stigmi antichi.
Questo è il contesto. Ma ora andiamo, è tempo di votare. Ricordando almeno che per provare a vincere la mafia c’è da combattere prima l’asfissia dell’arretratezza.

Da lavialibera n°8 2021

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