Droghe e riduzione del danno, una piccola difesa non richiesta
Per Fabio Cantelli Anibaldi, la riduzione del danno ha contribuito a normalizzare la tossicodipendenza, ma non libera dalla schiavitù
Come si fa la riduzione del danno?
Al centro non c’è la ‘droga’, ma la persona che non viene marginalizzata, ma ha contatti umanizzanti
Si fa riduzione del danno quando in un servizio di “drop in” si scambia una siringa sporca con una pulita, ci si prende cura della persona in modo tale che la pratica iniettiva non sia correlata al rischio di infezioni e ulteriori complicazioni sanitarie. La si fa in un’unità di strada, nell’offerta di una coperta e una bevanda calda a rendere meno aspra una notte all’addiaccio di una persona senza fissa dimora. La si fa in un centro diurno, nella piacevole scoperta “del primo Biancosarti alle sei di sera” di una persona che usualmente toccava il suo primo bicchiere di alcol alle nove del mattino, e che invece nel servizio sta riscoprendo una nuova qualità di vita, uscendo dal suo appartamento, ritrovandosi in gruppo e riorganizzando la propria giornata non solo nella cadenze delle bevute. La si fa nell’intervento di drug checking al rave illegale, quando l’operatore allerta della pericolosità di quella sostanza che è stata falsamente spacciata per semplice Mdma, e permette così ai frequentatori della festa un uso più consapevole.
Per gli operatori della riduzione del danno, il teknival di Viterbo ha avuto segnali positivi
Ci si avvicina ad una logica di riduzione del danno quando ci si svincola da un alone colpevolizzante legato alle pratiche di assunzione di sostanze e si pone al centro la persona, non la “droga”: l’obiettivo non si riduce al “non farsi”, alla semplice astensione dall’uso, interroga invece la possibilità per ognuno di noi di stare un po’ meglio, di recuperare dignità e di fare alcuni passi avanti, importanti anche se non risolutivi, nella propria qualità di vita. Anche per le persone in aperta condizione di dipendenza vediamo una netta differenza tra chi è solo, marginalizzato ed esposto ai numerosi rischi correlati ad una vita vissuta ai margini, e chi invece beneficia di una relazione, di un contatto umanizzante, di uno sguardo protettivo che non chiede di smettere, ma si preoccupa di sollevarci da complicazioni sociali e sanitarie. La differenza è la presenza o meno di strategie di riduzione del danno.
La dimensione sanitaria della riduzione del danno
Nonostante gli attacchi politici e ideologici, la riduzione del danno permette ogni anno di raggiungere e sostenere centinaia di migliaia di persone, che altrimenti non avrebbero relazioni con i servizi pubblici sociali e sanitari
Si tratta di uno dei quattro pilastri europei delle politiche sulle droghe (insieme a prevenzione, trattamento e lotta al narcotraffico). Il legislatore italiano ha sollecitate le regioni ad annoverarla tra i Livelli essenziali di assistenza (Dpcm 12/1/2017, art. 28, comma 1 lett. k – interventi di riduzione del danno) e la Regione Piemonte, ad esempio, l’ha inserita come tale con la delibera della giunta regionale 29-4074 del 17 ottobre 2016. Permette ogni anno di raggiungere e sostenere centinaia di migliaia di persone, che altrimenti non avrebbero relazioni con i servizi pubblici sociali e sanitari, nonostante continui a subire attacchi politici e ideologici.
Droga, la parola ai consumatori
Il “derby” tra pratiche per eliminare o limitare il consumo di sostanze
Già possiamo sentire le obiezioni a quanto dichiarato: “Facendo così non si fa che accettare e confermare l’uso di sostanze”. Pensare a una sorta di derby tra la terapia delle dipendenze finalizzata all’astinenza e tutte le pratiche di riduzione del danno sembra però una contrapposizione tanto sterile quanto inutile, visto l’universale riconoscimento dell’efficacia di entrambe queste strategie di intervento nei confronti delle dipendenze da sostanze. Nessuno mette in discussione la bontà di percorsi rielaborativi e di parola, in cui la persona attraversa i suoi conflitti, affronta i suoi demoni e riesce a ritrovarsi in un progetto di vita libero dalla condizione di dipendenza: è una questione di competenze, di convinzioni, di risorse personali, talvolta anche di fortuna.
Allo stesso modo non si deve però contestare l’intrinseco valore delle azioni di riduzione del danno: non parliamo di eroici cambiamenti definitivi, parliamo di riconoscimento della persona, di tutela della sua salute, di costruzione di occasioni di dignità e di relazione. Chiunque di noi sia stato attivo in un’azione simile sa che non è solo una questione materiale, una siringa scambiata, un bicchiere di tè, un orientamento sanitario: è un incontro tra persone, tra sguardi, è un momento di contatto umano e di rispetto che ha in sé il suo senso profondo, anche se svincolato da un obiettivo di assoluta astensione.
Uno sguardo laico per prendersi cura della persona
Ognuno fa il meglio che può con le risorse che ha e in questo va sostenuto in ciò che è possibile. Siamo chiamati a vedere e a difendere le riserve di dignità e di benessere nelle persone tossicodipendenti
Non possiamo pensare che il consumo di una sostanza sia in sé e per sé una condanna al peggio, “tu sei un drogato e di conseguenza ti meriti di soffrire”: possiamo assumere uno sguardo più laico, che cerca di prendersi cura della persona comunque rispettandola e sostenendola, senza incastrarsi in automatismi e richieste magari in quel momento inaccettabili (“o smetti o non ti aiuto”).
Ognuno fa ciò che può, vuole e sa fare e questo è il campo in cui ogni operatore sociale gioca. Non esiste il “farò il tuo bene anche se tu non lo vuoi”, non ha mai funzionato. Nel tempo abbiamo toccato con mano la fragilità di tante persone, che è anche la nostra: non siamo tutti esploratori che attraversano coraggiosamente il loro deserto per rinascere, alcuni di noi vivono un’esistenza precaria e un eccesso di richieste può essere fatale. Non spetta a nessuno dare il patentino di vita buona, di vita degna di essere o meno vissuta, ognuno fa il meglio che può con le risorse che ha e in questo va sostenuto in ciò che è possibile. Siamo chiamati a vedere e a difendere le riserve di dignità e di benessere nelle persone tossicodipendenti, non possiamo appiattirci in un’equivalenza tra uso di sostanze e male, che non restituisce la complessità delle nostre storie e in cui le persone in strada non si riconoscono.
La stella polare che ci ha sempre guidati è la persona, mai la sostanza. Il quadro attuale è molto cambiato rispetto ad anni fa e il concetto di “uso compatibile” non è ipotesi da discutere, è nei fatti e nella realtà delle cose. Non spetta a noi giudicare – per fortuna –, spetta a noi invece essere presenti nei contesti di uso e potenziale rischio e prenderci cura di quelle situazioni in cui la fatica e la sofferenza rischiano di prendere il sopravvento, per una prevenzione terziaria e dignitosissima. La riduzione del danno è fondamentalmente presenza con e per l’Altro, senza un automatica richiesta compensatoria di cambiamento per ottenere un qualche beneficio. D’altra parte, diceva un medico qualche anno fa, “per poter permettere a qualcuno di redimere le persone devono esserci altri che prima si impegnano per tenerle vive”.
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