Ciechi di fronte al diritto e ai diritti

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Con una sentenza dirompente dal punto di vista mediatico e politico, ma assolutamente scontata dal punto di vista giuridico, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ribadito principi fondamentali in tema di asilo e protezione internazionale: un paese terzo può essere designato come “paese di origine sicuro” solo se questa scelta è fondata su informazioni verificabili, accessibili e attuali, e se tale designazione può essere sottoposta a un controllo giurisdizionale effettivo. Sembrava ovvio a tutti, soprattutto ai giudici che dovevano applicare le norme italiane, ma non per il governo Meloni.

Il caso, affrontato dalla Corte nelle cause riunite C-758/24 e C-759/24, nasce proprio da due domande di protezione respinte dalle autorità italiane dopo che i richiedenti, cittadini del Bangladesh, erano stati trasferiti in Albania in applicazione del famigerato protocollo Italia-Albania. Un accordo che istituisce centri per migranti in territorio albanese ma sotto giurisdizione italiana, e che permette di gestire le domande di protezione con una procedura “accelerata” per chi proviene da paesi considerati sicuri.

Il problema? Il Bangladesh è stato inserito nell’elenco italiano dei paesi sicuri con un atto legislativo privo di fondamento pubblico e verificabile. Né i richiedenti né i giudici potevano sapere su quali fonti si fosse basato il legislatore. Un corto circuito che mina alla base ogni garanzia del diritto d’asilo.

Secondo la Corte, un simile impianto non regge: se manca la possibilità per il giudice nazionale di sindacare la sicurezza reale del paese di origine, il sistema viola le norme europee. L’accessibilità alle fonti di informazione non è un dettaglio tecnico: è una condizione imprescindibile perché i diritti dei richiedenti asilo non siano solo sulla carta.

Nonostante questa interpretazione del diritto comunitario volta al rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani fosse già chiarissima, il governo Meloni ha tirato dritto. Ostinato nel voler dimostrare efficienza a suon di trasferimenti forzati, decreti, muri e confini esternalizzati. I CPR in Albania sono un esperimento pericoloso: si gioca con la giurisdizione, si allontana l’attenzione pubblica, si restringe lo spazio delle garanzie.

La sentenza UE è l’ennesimo segnale di allarme contro la gestione italiana dell’immigrazione, non solo perché minaccia di scardinare i principi della protezione internazionale, ma perché costruisce un modello di gestione dei migranti fondato sull’arbitrio e sull’opacità, che mette a rischio persone in cerca di salvezza e mina la coerenza dell’ordinamento democratico. I diritti non si fermano in mare né si sospendono al di là dell’Adriatico.

[Foto: Corte di giustizia dell’Unione europea]

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