Donazione di organi: come funziona?

Qualche tempo fa mi hanno mandato un lunghissimo post Facebook che parlava della donazione degli organi, di come le persone siano ancora vive quando si prelevano e di come i medici che lo fanno di mestiere siano spesso traumatizzati da ciò che vedono in sala operatoria.
L’argomento della donazione degli organi è già stato affrontato più volte su questo sito: abbiamo parlato in maniera estesa di come si diventa donatori, delle varie storie sensazionalistiche sul tema di “stavano per espiantargli gli organi e si è svegliato all’ultimo istante”, della complessa questione di cosa sia la morte cerebrale e di come, quindi, gli organi non siano mai prelevati a persone vive.
Dal momento che, nonostante gli sforzi comunicativi di tante persone, ancora girano bufale e strisciano paure riguardo alla donazione degli organi, ho pensato di sfruttare l’occasione per fare un po’ di chiarezza, e magari una rapida carrellata delle inesattezze che si sentono più di frequente sul tema.
Per una volta, voglio ribaltare lo schema organizzativo dell’analisi: prima cerchiamo di capire come funziona la donazione di organi, e poi andiamo a vedere perché il post di cui vi parlavo è pieno d’inesattezze e distorsioni.
Partiamo dalle basi…
Piccolo disclaimer: colloquialmente si usa la parola “cervello” per indicare quella parte del sistema nervoso centrale che sta dentro la scatola cranica. Tecnicamente parlando, quello è l’encefalo, che comprende sì il cervello, ma anche il cervelletto e il tronco encefalico (a sua volta suddiviso in ponte, bulbo e midollo allungato).
Per parlare di questo argomento è importante sapere che queste strutture hanno una sorta di organizzazione “gerarchica”. Se qualcosa smette di funzionare, anche tutto ciò che sta “sopra” fa la stessa fine. Nello specifico il tronco encefalico è quella zona in cui si trovano i centri nervosi che controllano il respiro, la circolazione, il ritmo sonno-veglia e tutta un’altra serie di funzioni “di base”. Se questo viene danneggiato e i suoi neuroni muoiono, possiamo essere sicuri che a monte non ci sia più attività.
Partiamo dall’inizio, ancora prima del prelievo degli organi in sala operatoria; partiamo da cosa succede quando una persona muore, anzi, da come si capisce se qualcuno è morto.
La Legge italiana definisce la morte come
la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo
Questo tipicamente può avvenire secondo due modalità: smette di arrivare ossigeno (perché il cuore non batte o perché i polmoni non funzionano) oppure si ha una lesione diretta dell’encefalo (ad esempio un trauma). In entrambi i casi, il risultato è lo stesso: i neuroni muoiono.
Nel secondo caso si può realizzare quella che viene solitamente chiamata “morte cerebrale” o “morte a cuore battente“. Sarebbe più corretto chiamarla “morte in soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie” come viene fatto nella normativa, perché anche nel primo caso a morire è stato il cervello.
La morte è una sola, quello che cambia è la modalità in cui si verifica e i critieri che quindi vengono usati per accertarla (cardiologici, respiratori o neurologici).
Ovviamente il fatto che i neuroni siano morti non implica che tutte le cellule del nostro organismo siano morte. Questo è alla base della differenza fra morte legale e biologica. Le nostre cellule rimangono vive finché hanno scorte di ossigeno e nutrienti.
Non bisogna fare l’errore però di pensare che quindi una persona sia “ancora viva” solo perché le sue cellule cardiache o renali funzionano ancora. Nel momento in cui neuroni muoiono, anche in caso di morte “a cuore battente”, cominceranno ad andare in necrosi nel giro di pochissimo tempo.
Come si stabilisce se qualcuno è morto
Abbiamo detto che la morte è unica ma i criteri di accertamento sono diversi.
Siamo storicamente un Paese con un sacro terrore dei seppellimenti “da vivi” in caso di morte apparente, quindi vedrete che questi criteri sono molto stringenti.
Cercando di non perdere di vista l’obiettivo di questa discussione, mi concentrerò sui criteri che vengono seguiti quando qualcuno muore in ospedale, in due scenari specifici: morte per arresto cardiaco e morte per lesioni encefaliche.
Se qualcuno muore in casa sua gli accertamenti seguono un percorso diverso, su cui però non mi soffermerò perché se uno muore in casa i suoi organi non potranno essere espiantati, e dunque approfondire questa parte esula dallo scopo del nostro articolo.
In caso di morte dovuta a problemi cardiaci quello che si fa per accertare la morte è un esame chiamato tanatogramma. Si tratta di un elettrocardiogramma (ECG) della durata di venti minuti che deve dimostrare l’assenza di attività cardiaca.
Come fa questo a garantirci la morte? Perché senza battito cardiaco non arriva sangue al cervello, quindi non arriva ossigeno. Senza ossigeno i neuroni iniziano a soffrire e morire in tempi molto rapidi: dopo circa cinque minuti sono tutti morti. Registrare venti minuti di carenza di ossigeno fa sì che ci sia ampio margine, che garantisce inequivocabilmente che quel soggetto sia morto.
Inoltre può essere interessante notare che, sempre perché siamo un Paese che ha molta paura delle morti apparenti, il nostro tanatogramma è il più lungo d’Europa. Proprio perché sono sufficienti cinque minuti di assenza di battito, in altri Paesi i tempi di attesa sono più brevi: cinque minuti nel Regno Unito, in Belgio e in Francia, dieci minuti in Svizzera, Repubblica Ceca e Austria (solo per citarne alcuni).
Non è strettamente necessario un ECG piatto per 20 minuti, dal momento che ci possono essere artefatti dovuti, ad esempio, a qualcuno che tocchi il tavolo su cui si sta svolgendo l’esame. In genere si dice che deve esserci assenza di attività contrattile valida, perché un singolo battito in quei venti minuti non garantisce un apporto di ossigeno al cervello tale da salvare i neuroni.
La questione si fa più delicata e complessa quando si parla di chi muore, in genere in terapia intensiva, per via di lesioni encefaliche.
Queste persone sono ventilate tramite respiratori meccanici, il loro cuore batte e non c’è attività encefalica.
Perché il loro cuore continua a battere anche se sono morte? Perché le cellule cardiache non hanno bisogno dell’encefalo per battere. Ci sono cellule specializzate che, anche in assenza di controllo nervoso, generano una contrazione ritmica. Si tratta di una sorta di pacemaker naturale, il nodo seno-atriale.
I polmoni invece non sono capaci di funzionare autonomamente, motivo per cui l’assenza di respiro spontaneo è una delle condizioni che devono essere rispettate per poter fare diagnosi di morte.
Come si fa a capire che non c’è attività encefalica?
Innanzitutto viene studiato il tronco encefalico e non il cervello, perché se il primo non funziona sicuramente sono state perse tutte le funzioni nobili encefaliche “a monte”. Per poter dichiarare la morte devono essere assenti tutta una serie di riflessi del tronco encefalico.
L’accertamento è collegiale, effettuato da un anestesista/rianimatore, da un medico legale e da un neurologo.
Il parere deve essere unanime e gli accertamenti devono essere effettuati una seconda volta a distanza di almeno sei ore.
Se tutti questi criteri vengono rispettati si può fare diagnosi di morte.
Basandoci su quanto detto finora è chiaro come non ci si possa “svegliare” da una diagnosi di morte.
Molta confusione a riguardo viene dall’uso di “coma irreversibile” come sinonimo di “morte cerebrale”. Si tratta di un uso scorretto, probabilmente “figlio” di un periodo in cui ancora non si aveva piena comprensione del tema, nemmeno in ambito medico.
Può essere abbastanza complesso districarsi fra situazioni simili ma differenti come il coma, lo stato vegetativo permanente, gli stati di minima coscienza e la morte cosiddetta “cerebrale”. Specie perché negli ultimi anni ci sono state evoluzioni di queste definizioni date dalle nuove scoperte in campo medico.
Una cosa però è molto chiara e non è assolutamente messa in discussione: un paziente di cui è stata accertata la morte non si sveglierà mai. Se viene tenuto attaccato al respiratore può essere che il suo cuore continui a battere anche per molto tempo, ma questo non significa che sia vivo.
La donazione d’organi
Sperando quindi che ci sia un po’ più di chiarezza su cosa succede quando un paziente muore, cerchiamo di capire cosa accade dopo.
Se il paziente è donatore si fa un controllo del suo stato di salute. Come riporta anche il sito dell’AIDO, non possono donare gli organi le persone decedute con malattie prioniche (come il cosidetto “morbo della mucca pazza”), con tumori maligni (con alcune eccezioni) o infezioni particolari. Se il paziente non ricade in una di queste situazioni si può procedere al prelievo degli organi e, successivamente, al trapianto.
Nel caso del donatore a cuore battente sappiamo che gli organi sono vitali, ancora nutriti dal sangue. Nel caso invece del donatore a cuore non battente?
Quei venti minuti senza ossigeno ovviamente non coinvolgono solo i neuroni, ma anche tutti gli altri tessuti. Questo è il motivo per cui fino a non tantissimo tempo fa i pazienti deceduti per problemi cardio-respiratori non erano candidabili alla donazione d’organo.
Tuttavia le tecniche si sono evolute e, a oggi, siamo in grado di trapiantare anche organi che sono stati in ischemia (senza ossigeno) per venti minuti con ottimi risultati.
Giusto perché è sempre bene ricordarlo: si possono donare sia organi sia tessuti. Fra gli organi ci sono il fegato, i reni, il cuore, il pancreas, i polmoni e l’intestino. Ipotizzando che il donatore fosse idoneo per tutti questi, sono circa sette vite salvate (reni e polmoni possono essere trapiantati singolarmente, il fegato può essere diviso perché tende a rigenerare) e due vite incredibilmente migliorate (si può sopravvivere anche senza pancreas e senza intestino, ma ovviamente la qualità di vita non è ottimale). Qualcuno potrebbe obiettare che grazie alla dialisi si vive anche senza reni, ma in realtà sappiamo che la mortalità è maggiore per tutta una serie di motivi.
Fra i tessuti invece ci sono le cornee, il tessuto osseo, le cartilagini, i tendini, la cute, le valvole cardiache e i vasi sanguigni. Quindi, sempre ipotizzando che il donatore fosse idoneo, abbiamo una persona che torna a vedere, qualche persona che torna a camminare magari dopo aver perso un pezzo di osso per un tumore, un grande ustionato che sopravvive grazie a un trapianto di cute, un paziente con problemi di cuore che riceve una valvola nuova e qualcuno che magari riesce a ottenere un bypass dopo un infarto.
Nella sezione delle domande frequenti di AIDO ci sono diversi chiarimenti riguardo alla domanda “ma le persone sono davvero morte quando vengono prelevati gli organi?” proprio perché è ancora una paura diffusa.
In parte questo è dovuto anche a chi continua a spargere dubbi e alimentare quell’ansia viscerale che tutti noi possiamo provare se pensiamo alla morte. In questo caso il miglior antidoto alla paura è la conoscenza. Sapere cosa succede, che tutele ci sono, può aiutare le persone a sentirsi più tranquille quando esprimono la loro scelta sulla donazione d’organi.
Secondo me sapere quante persone possono essere aiutate donando qualcosa che a noi, alla fin fine, non serve più, può aiutare a creare maggiore consapevolezza e sensibilità sul tema.
Medici assassini?
Purtroppo, fra le domande a cui viene data risposta in quella pagina c’è anche
E se i medici sapendo che siamo donatori non ci curassero per favorire i trapianti?
Questa è una delle frasi che più frequentemente sentiamo ripetere da chi osteggia la donazione degli organi. Cerchiamo di capire perché non può essere vero.
Chi si occupa di accertare la morte e chi si occupa del prelievo vero e proprio sono persone diverse. Anzi, sono squadre di persone diverse visto che abbiamo detto che l’accertamento di morte è collegiale in caso di specifici criteri neurologici, e che per prelevare gli organi solitamente lavora un’équipe di chirurghi.
L’accusa che viene rivolta ai medici di lasciar morire i donatori per poter prelevare gli organi è assolutamente infondata. Non saranno sicuramente l’anestesista, il medico legale e il neurologo a occuparsi delle liste d’attesa dei trapianti. Non guadagnano nulla dal dichiarare morta una persona che non lo è. Ci sono tantissime garanzie che tutelano la persona in questa fase.
Per capire quanto sia assurda un’idea del genere provo a descrivervi uno scenario ipotetico.
Mario, giovane e in salute, viene investito tornando a casa dal lavoro. Sbatte la testa e viene portato in terapia intensiva. Qui viene assistito da un anestesista-rianimatore, Renzo, che si assicura che continui a respirare, e da una neurologa, Nadia, che valuterà i danni all’encefalo dovuti all’incidente.
Nadia nel frattempo ha un’amica che ha bisogno di un trapianto di rene; vede che il gruppo sanguigno di Mario e della sua amica corrispondono, in qualche modo scopre che Mario è donatore – cosa che però non è riportata nella cartella clinica – e decide di provare a ottenere un rene per la sua amica.
Descrive a Renzo la situazione come più grave di quella che è, e gli propone di fare un accertamento di morte.
Renzo decide di fare una breve prova: solleva una palpebra di Mario, lascia cadere una goccia di soluzione fisiologica sulla sua cornea, e vede che Mario chiude l’occhio. Mario è ancora vivo, c’è ancora il riflesso corneale! Ovviamente il prelievo non si fa.
La storia si fermerebbe qui, ma facciamo finta che…
Nadia convince Renzo a darle una mano: la sua amica sta morendo e, tanto, Mario è talmente grave che è solo questione di tempo.
Nadia e Renzo devono chiamare il medico legale e in qualche modo sperare che lui sia pessimo nel suo lavoro e che quindi non si accorga dei riflessi. Invece il medico se ne accorge, Mario è ancora vivo, il prelievo non si fa.
Di nuovo, la storia finirebbe qui, ma facciamo finta che…
Il medico legale è davvero poco scrupoloso nel suo lavoro, e si fida della parola dei colleghi sull’assenza dei riflessi, provati prima che lui arrivasse. Ma rimane sempre il riesame dopo sei ore. Vogliamo ipotizzare che anche al riesame nessuno si accorga che Mario è ancora vivo?
Perché, oltre ai professionisti che abbiamo incontrato fin qui, rimane anche tutto il resto del personale della terapia intensiva: infermieri, altri medici, un sacco di persone qualificate che non si accorgono di cosa sta succedendo. Quanto è probabile? Sono tutti d’accordo? A che scopo?
Continuiamo a fingere, ipotizzando che l’intero reparto sia pieno di gente con i paraocchi.
Nadia riesce a far accertare la morte di Mario. Essendo Mario un donatore, si decide di procedere con il prelievo degli organi, prelievo che si fa in sala operatoria, sotto la supervisione di un altro anestesista che, ricevendo in sala Mario, si accorge in fretta del fatto che la diagnosi di morte è sbagliata.
La storia si ferma qui? No, perché per qualche motivo Renzo convince il collega a fare cambio e va lui in sala come anestesista.
Il prelievo degli organi è un intervento a tutti gli effetti; ipotizziamo di nuovo che nessuno fra il personale di sala noti nulla.
Se già sarebbe improbabile essere arrivati fin qua, pensate alla brutta sorpresa che avrà Nadia quando scoprirà che la sua amica non è in cima alla lista trapianti: i reni di Mario andranno a due pazienti più gravi.
Vogliamo proprio uno scenario da spionaggio? Con Nadia che corrompe qualche nefrologo per far avanzare la sua amica in cima alla lista? Molto bene.
Peccato che Nadia non abbia studiato abbastanza e si sia dimenticata che non basta il gruppo sanguigno per essere compatibili. Per il trapianto di rene serve anche la compatibilità di una cosa chiamata HLA (antigeni dei leucociti umani). Il rene di Mario non è compatibile con la sua amica. I reni di Mario vanno comunque ad altre persone e Nadia – insieme a tutto il personale del reparto in cui lavora – hanno rischiato il posto e la fedina penale per nulla. Ha senso?
E in tutto questo la domanda rimane: quante cose dovrebbero andare storte perché si arrivi fin qui?
Ci vediamo per la seconda parte dell’articolo tra qualche giorno.
NP
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