Sanpa. Dove eravamo rimasti?
Ho lasciato passare parecchie ore, prima di scrivere. Sarei stata troppo emotiva. Non per qualche folgorante scoperta: della storia e delle pratiche di Muccioli e di San Patrignano so tutto, ho sempre saputo tutto, da quando ho cominciato a saperne qualcosa di droghe, per professione e per attivismo, ho sempre combattuto contro quella cultura, quel paradigma e quelle pratiche, cercando, insieme a decine di migliaia di altre e altri, di pensare e proporre e praticare alternative. Ma la serie Sanpa su Netflix non dà solo informazioni (il che comunque è importante per chi non sa, non c’era, c’era ma dormiva) ma racconta storie, con le voci, le facce, le incertezze, i dolori, la rabbia. Dà, di nuovo, a quella cultura, a quel paradigma, a quelle azioni corpi, volti, sentimenti e pensieri. A me, che su questo combatto da trent’anni la mia battaglia di laicità, rispetto, cura, quello che a caldo è rimasto è una grande rabbia e una sensazione di perenne, prolungato “scandalo”. Ed è proprio la mancanza di un sentimento di “scandalo” che mi colpisce: quella ai tempi dei fatti, di cui il circo mediatico e politico di allora è eclatante emblema, ben rappresentato nel film, e quella di molte reazioni di oggi lette su social e giornali (a parte quelle dell’attuale comunità di San Patrignano che, ci sta, difende se stessa) ma di chi – che non sappia di droghe o, peggio, che ne sappia – dice di voler sospendere il giudizio, dice chissà, è complesso, dice però il momento era drammatico, non ne so abbastanza. Chissà? Sospendo il giudizio? Non ne so abbastanza? Di fronte a coercizione, lavoro coatto, umiliazione, violenza, sequestro, omicidio, esercizio totale del potere su altri, pretesa di impunità di fronte alla legge, totale arbitrio da istituzione totale, “non ne so abbastanza”?!
Il nodo di questa mancanza di scandalo e di questa difficoltà ad avere una posizione, ieri e oggi, non è il non saperne, ma al contrario ciò che “si sa”, o che si è interiorizzato magari in forma opaca, o superficiale o senza consapevolezza, circa droghe, persone che le usano e trattamento delle persone che si drogano. Diceva Bateson, chi dice di non avere un paradigma (“non ne so”) in realtà ne ha sempre uno, non esplicito, inconsapevole e magari inconfessabile.
Non se ne saprebbe abbastanza, se si parlasse di anziani maltrattati in una RSA? Di persone psichiatriche legate ai letti per giorni? Di bambini schiaffeggiati in un asilo? Di persone detenute torturate? O in questi casi basterebbe – basta – una media cultura democratica, dei diritti fondamentali, un’idea di cura basata sul rispetto della persona e della sua identità, della libertà che è inalienabile anche quando vi sia disagio e malattia, della inviolabilità del corpo, del rispetto delle leggi a tutela di tutto questo? Basterebbe – basta, certo che sì.
Ma non per chi consuma droghe, e ha bisogno di cura e sostegno. Non per lui, non per lei. Nemmeno di fronte a incatenamenti, botte, somministrazione di farmaci sperimentali senza consenso, caccia notturna nelle campagne, sequestro. “Non ne so, è complesso …”
Per uno scandalo che alimenti pensiero e conoscenza
Il nodo e l’interesse di questo rinnovato dibattito non è San Patrignano, è il paradigma, come viene visto il consumo di sostanze, e lo stigma sociale gettato addosso a chi consuma droghe (illegali, che quelle legali sono, fortunatamente, accompagnate da una cultura sociale ben radicata che le assolve), il cui corpo è conteso tra giudizio morale (il consumatore è un deviante) e giudizio patologico (è malato), in una alleanza che è l’inferno di chi usa sostanze.
E’ questo il pensiero che a mio avviso dobbiamo fare, riprendere, rilanciare anche grazie al film.
Perché se per qualche tempo qualcuno ha pensato che essere definito malato era meglio che essere definito criminale, in realtà si è scoperto ben presto che non era questa la salvezza, per chi consuma droghe le due dimensioni sono intrecciate, non alternative, sono una doppia gabbia. E in questo paradigma, anche la cura rischia di essere una detenzione, una contenzione. Dovrebbe fare scandalo (e anche sollecitare ironia, se se ne potesse ridere) sentir dire che un contesto correzionale, disciplinare e violento che vuole “curare”, “salva” dal carcere. Tutto quello che apprendiamo sul metodo Muccioli, non dai detrattori ma dalle sue stesse parole, non è che la collaudata pratica dell’istituzione totale: mortificazione e decostruzione del sé, umiliazione e minorazione, profanazione, un organizzato “assalto al sé”, direbbe Goffman. Goffman alla romagnola, evidente, chiaro, inequivocabile, dispositivi rispetto ai quali le parole stanno a zero. Il massimo di una rabbia dolorosa e del disgusto etico l’ho provato non davanti alle catene, ma all’umiliazione di quel ragazzo – cui al ricordo oggi, da uomo, ancora trema la voce – quando viene deriso pubblicamente per i suoi scritti e la sua dignità intellettuale, che andava negata e mortificata, o della ragazza catturata e riportata in comunità, fragile piangente e smarrita, di cui si ride davanti alle telecamere, in un abbraccio falso, di patriarcale autoritarismo, che al pubblico ricorda la sua prostituzione. Davvero “non ne sappiamo abbastanza”?.
La questione del paradigma, appunto: quella “malattia” viene rappresentata allora da Muccioli, oggi ancora da troppi, come una molecola chimica che entra nel corpo di qualcuno che nulla può, lo domina, ne fa un altra persona, tanto da incapacitarlo. Un non- uomo, una non-donna, le citazioni di questo assunto nel film sono innumerevoli. Lo dice in maniera esemplare il giudice della corte d’appello che, non a caso, su questo basa la assoluzione di Muccioli dalle catene: i ragazzi sono capaci di intendere ma non di volere. Ecco fatto: la cura e il sostegno possono così fare a meno della soggettività, della personalità, della pregressa esperienza di vita e della libertà personale, liberarsi dalle molecole diventa l’imperativo assoluto, qualsiasi sia la complessità della vita, tanto che molecole sorelle che curano (il metadone) sono demonizzate e bandite; e decostruire la personalità come premessa per riscrivere su una pagina bianca, secondo una morale imposta, per “tornare” uomo, “tornare” donna.
Questa è l’attualità su cui credo dobbiamo centrare le riflessioni di oggi, leggere il caso Sanpa in filigrana, come caso limite di un “ordinario stigma” e di un “ordinario” e diffuso paradigma. Se le catene, l’omicidio e i suicidi – che ancora aspettano verità – possono aver imbarazzato qualcuno, lo stigma e il paradigma che hanno consentito quegli accadimenti hanno invece avuto molta fortuna: la riforma in senso autoritario e repressivo della legge 685 del 75 – che aveva voluto sottrarre il consumatore alla psichiatria e al carcere e affidarlo ai servizi pubblici del territorio – e l’approdo alla legge 309 del 90, che ancora oggi ci governa, è il prodotto della battaglia anche di San Patrignano (certo non da solo, e gli altri compagni di viaggio, alcune comunità incluse, sono ancora qui, sia chiaro), del circo mediatico che a lui inneggiava (fantastica e agghiacciante nella sua arroganza e nella sua miseria la testimonianza di Red Ronnie) e dei politici che lì andavano in pellegrinaggio, in una anticipazione perfetta dell’odierno populismo.
“C’era solo lui”… La smemoratezza non è mai innocente
Accanto alla mancanza di scandalo, di una parte del dibattito in corso mi colpisce la smemoratezza. Del contesto di allora, delle battaglie, del conflitto. Che a dire il vero Sanpa non colma, ed è il suo massimo difetto: chi non ne sa abbastanza o è molto giovane può uscirne convinto che, comunque la si pensi, “c’era solo lui” a rispondere a una situazione drammatica.
No, non c’era solo lui. Tanto per cominciare, negli anni ’70, c’era Franco Basaglia. Che si occupava di matti più che di tossicodipendenti, ma che diceva parole definitive sulla soggettività di chi soffre, sulla cura, sulla contenzione e le catene, sui diritti inalienabili di ognuno, sul concetto stesso di malattia, sulle istituzioni totali. Sulla rivoluzione che operatori e terapeuti dovevano compiere a cominciare da sé e i loro “cattivi paradigmi”. Quel dibattito – anche quello della psichiatria è ahimé un ambiente di smemorati, su questo tutti dobbiamo chiederci dove abbiamo sbagliato, perché abbiamo lascito così poca eredità – non era chiuso nelle professioni, era un dibattito sociale, culturale, in quel contesto degli anni ’70 in cui nessuno si sarebbe accontentato di dire “non ne so abbastanza”, evitando di posizionarsi (bei tempi, per questo). Il paese era attraversato da questo pensiero e da questa rivoluzione, anche l’ambito delle droghe, e ognuno ha potuto saperne e farsene un’idea. Certe argomentazioni che troviamo in Sanpa sono le stesse usate per la contenzione meccanica in psichiatria: è per lui/lei, così non si fa male. Le catene di Muccioli avvengono allora, in quel tempo di radicale svelamento di quell’inganno: nessuno dica che non c’era una alternativa.
No, non c’era solo lui. C’era stata una battaglia per la legge sulle droghe, la n.865 del 75, che riconosceva il consumo problematico e il bisogno di una risposta, ma lo faceva rinunciando a punire il consumatore e investendo sui servizi del territorio, sociali, sanitari e ospedalieri. Una prima vittoria contro psichiatrizzazione e criminalizzazione. E’ vero, il sistema pubblico decollava lentamente e dimostrava molte falle, e viene in mente la legge 180, e come mancanza di coraggio politico, di chiarezza strategica e di efficienza operativa l’hanno fin dall’inizio minata. Ma quella legge 685 e il dibattito e la lotta che l’avevano portata in Parlamento hanno cambiato almeno in parte la cultura su droghe e dipendenze, affidando al welfare pubblico il diritto alla salute dei cittadini, quei cittadini che usano droghe. Quella legge è stata voluta e difesa allora da molte comunità terapeutiche, che di catene non avevano allora e non hanno oggi bisogno. Muccioli e San Patrignano l’hanno sempre osteggiata, così come hanno sempre lavorato a disconoscere ruolo e competenze del pubblico.
No, non c’era solo lui. Alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, al culmine del gigantismo e del lobbysmo politico di San Patrignano, c’era uno scontro aperto, teorico ma anche culturale e anche scientifico, e chiare linee alternative di lavoro. Quello stigma e quel paradigma, li abbiamo decostruiti e criticati concretamente, fatti a pezzi, rovesciati, e abbiamo dato vita ad altri servizi, ad altri percorsi terapeutici, ad altre modi di prendersi cura e, a monte, ad altri sguardi sui consumi. Abbiamo condotto una serrata lotta contro una legge punitiva, la Russo Jervolino del 90, non abbiamo vinto ma certo abbiamo inciso in modo importante, vincendo il referendum del 1993 con cui gli italiani hanno scelto di smussare gli articoli più punitivi per i consumatori. Abbiamo, soprattutto, creato e organizzato la prospettiva della riduzione del danno, alla cui base c’è il rovesciamento di uno stigma, il ritratto di un consumatore che è soggetto consapevole e capace, e che anche se ha fragilità, disagio e sofferenza, non perde la sua caratteristica di soggetto che può apprendere, agire e cambiare; abbiamo anche dimostrato che buona parte di chi ha problemi correlati al consumo ne esce senza supporto professionale (si chiama self recovery): non per dire che i servizi non servono (servono e sono un diritto), ma perché andava sottratta a invisibilità e retorica salvifica la soggettività di chi consuma. E mentre si consumava la parabola tragica di San Patrignano, noi, a metà degli anni ’90, eravamo in alleanza e sostenevamo i nascenti gruppi auto-organizzati di persone che usano droghe, nati per rivendicare diritti e cambiare la cultura sui consumi. Ognuno si sceglie i suoi compagni di strada.
Abbiamo scoperto e dimostrato come le molecole delle droghe non bastino a spiegare un problema, ma si debba guardare la persona e il suo contesto, e questo contesto l’ultima cosa che deve fare, se davvero vuole aiutare, è etichettare chi consuma. E abbiamo promosso una relazione di cura e sostegno basata sul rispetto, il riconoscimento degli obiettivi e delle competenze del singolo, e soprattutto dei suoi diritti fondamentali. Uno degli slogan di allora, emblematico di un variegato movimento, era Educare non punire, e coinvolgeva anche una gran parte delle comunità terapeutiche. Un altro, a me caro per le energie e la passione che ci ho messo per anni per farlo pratica concreta, era preso a prestito da Basaglia: La libertà è terapeutica.
No, non c’era solo lui. La smemoratezza non è mai innocente, perché piega la storia ad usum di qualcuno.
Eravamo in tante e tanti, a imboccare altre strade, ognuno si è preso le sue responsabilità remando nella sua direzione. Era ed è possibile senza catene, senza lavoro coatto, senza padri padroni, senza umiliazione, senza rinuncia ai diritti. Era ed è anche possibile vivere con le droghe senza morire: se il mondo in cui viviamo (la legge, la società, la cultura, i pregiudizi, il proibizionismo e il mercato illegale, i servizi, i mass media e i padri padroni) non fanno di tutto per convincerci del contrario. Ecco, ricominciamo continuando a smantellare questo paradosso: per aiutarti ti convinco che sei incapace e che hai come destino la morte. É lì, in quella bugia, che si annida il potere arbitrario e assoluto, finisce il rispetto e svapora il prendersi cura.
L’articolo Sanpa. Dove eravamo rimasti? proviene da Fuoriluogo.