La war on drugs e i crimini di Duterte

Alla notizia dell’arresto su ordine della Corte penale internazionale (Cpi) di Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine dal 2016 al 2022, l’alto Commissario dell’Onu per i diritti umani Volker Türk ha dichiarato “La guerra alla droga di Duterte, prima a Davao e poi in tutto il Paese, è stata a lungo fonte di preoccupazione per il nostro Ufficio. Da oggi inizia la ricerca di giustizia per le migliaia di vittime di uccisioni e altri abusi, così come per le loro famiglie”.
Per motivi di salute Duterte non era in aula il 14 marzo scorso, la conferma delle accuse è prevista per il 25 settembre. Il Procuratore della Cpi lo ritiene responsabile di crimini contro l’umanità compiuti nell’ambito della sua “lotta al narcotraffico” tra il 2011 e il 2019.
Le preoccupazioni dell’Onu sono state occasione di impegno di diverse associazioni, tra cui molte italiane, a partire dall’Associazione Luca Coscioni e Non c’è pace senza giustizia che negli anni non hanno smesso di operare per l’incriminazione del mandante di decine di migliaia di morti, insieme al Drug Reform Coordination Network (DRCNet), Forum Droghe e Fuoriluogo.
Questo quanto scrivevo in questa rubrica, intitolata da Grazia Zuffa Filippine, un nuovo Hitler, il 5 ottobre 2016. Ne ripropongo le parti più importanti a riprova della notorietà di quanto stesse accadendo nell’arcipelago filippino nel silenzio di molti.
Da quando Rodrigo Duterte è stato eletto presidente il 30 giugno scorso, in quel paese è in corso una campagna di esecuzioni extragiudiziali in nome della “guerra alla droga”. In un paio di mesi sono state uccise circa 3.400 persone, tra “spacciatori” e “drogati”, mentre più di 700.000 filippini si sono consegnati “spontaneamente” alle autorità per paura di cadere vittime della campagna di incitamento alla violenza.
Parlando a una grande folla nella sua città natale di Davao, Duterte ha più volte invitato i filippini a uccidere direttamente gli spacciatori che resistevano all’arresto o rifiutavano di essere portati nelle caserme esortando i presenti a “non esitate a chiamare la polizia” oppure, se in possesso di una pistola di “fare da soli”. Dalle parole si è passati ai fatti. Il giorno dopo l’inaugurazione della sua presidenza, Duterte ha detto a un gruppo di poliziotti: Fate il vostro dovere contro gli spacciatori e se nel farlo vengono uccise 1.000 persone io vi proteggerò. Nello stesso giorno messaggi simili, ma contro i tossicodipendenti, furono gridati davanti a folle plaudenti. Non tutti i filippini la pensano però come Duterte per fortuna. La senatrice Leila de Lima, che in passato aveva condotto delle indagini indipendenti sulle attività degli squadroni della morte a Davao, ha organizzato delle audizioni parlamentari sulle uccisioni. Adesso teme per la sua sicurezza perché Duterte ha lanciato una campagna diffamatoria nei suoi confronti accusandola di traffico di droga, un’accusa tra le più pericolose di questi tempi nelle Filippine.
Oggi gli omicidi extragiudiziali ammessi ufficialmente sono 6.500, quelli stimati dalle Ong quasi 30.000. La senatrice de Lima è stata arrestata nel 2017 e infine liberata nel 2024 per l’inconsistenza delle accuse. Le Filippine, che avevano ratificato il Trattato di Roma istitutivo della Corte nel 2011, ne sono uscite nel 2019, all’indomani delle prime notizie dell’interesse della Cpi sui crimini di Duterte. La rubrica di nove anni fa si concludeva con l’invito all’Italia, centrale per l’istituzione della Cpi, a sostenere il lavoro delle organizzazioni non-governative che stavano lavorando a un dettagliato dossier su Duterte da inviare all’Aia. Non solo non lo fece ma a dicembre 2024 il nostro paese, con un governo di segno diametralmente opposto di quello di nove anni fa, non ha rispettato i suoi obblighi di arresto e cooperazione con la Cpi.
Ma nell’incriminazione di Duterte uno zampino italiano c’è, eccome se c’è.
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