Il piano italiano per eliminare il carbone passando prima dal gas (fossile)
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Gli amministratori del territorio e il sindacato sono schierati con le associazioni civiche che hanno messo a punto progetti alternativi. “Proponiamo un parco offshore e il piano di riconversione green Porto bene comune. Vogliamo eolico e fotovoltaico, idrogeno verde dalle rinnovabili e non idrogeno blu dal metano – racconta Luciano Damiani del Comitato Sole per Civitavecchia –. Dopo anni di battaglie, ora stanno con noi anche la Cgil e la Regione che ad agosto, con un emendamento alla legge di bilancio, ha posto un veto sui progetti da fonti fossili. Ma il governo ci ripete che senza il gas è impossibile”.
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Una transizione graduale
L’Italia è il Paese dell’Ue che da quest’anno dispone di più finanziamenti del piano per la ripartenza NextGenerationEu: 235 miliardi di euro, almeno il 37 per cento dei quali da riservare all’ambiente. Ciononostante, la strategia per abbattere le emissioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per i fondi europei resta quella tracciata a gennaio 2020 nel Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec), che stabiliva l’uscita graduale dal carbone ancorata a un altro fossile meno inquinante: il gas. Anche nell’intervista di settembre a Piazzapulita (La7), il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha ribadito la necessità di “usare il gas nella transizione come elemento di continuità”, pur dichiarando che il traguardo del Green deal europeo sono le rinnovabili e che occorre “aumentare fortemente l’elettrificazione da sorgenti che a loro volta non producano CO2”.
A giugno Bruxelles ha dato l’ok al Pnrr italiano ridimensionando però da 4,2 a 2,6 miliardi di euro i finanziamenti per l’idrogeno. Specificando che dovranno interessare solo l’idrogeno verde da fonti rinnovabili. E non l’idrogeno blu da idrocarburi o miscelato al gas: la via intermedia che era stata messa in cantiere nella bozza Strategia Idrogeno del ministero dello Sviluppo economico (citata nel Pnrr come piano “di prossima pubblicazione”), anche attraverso il costoso e inquinante processo di cattura e stoccaggio delle CO2 per estrarre idrogeno dal fossile. Un campo nel quale Eni e Snam hanno diversi progetti, come ricostruito dall’associazione ReCommon che attraverso l’accesso agli atti ha mappato le decine di incontri avvenuti nei mesi di definizione del Recovery plan tra i vertici delle compagnie e i ministeri. Nel documento per il via libera al Pnrr, la Commissione Ue ha poi incluso l’idrogeno blu e il gas naturale tra i “danni significativi” per l’ambiente, escludendo le fonti a bassa intensità di carbone dai finanziamenti.
Il recovery plan italiano non ferma i sussidi alle fonti fossili
Italia fanalino di coda
Solo il 16% della spesa italiana è valutabile come “sicuramente positiva per l’ambiente”, non il 40% come rivendicato dal governo Green recovery tracker
Per la stessa ragione, il Green recovery tracker dell’istituto tedesco Wuppertal per il clima e del think tank internazionale E3G che monitora i Pnrr ha bocciato l’Italia per il “rischio che una fetta relativamente alta dei fondi per la ripresa sia assegnata a progetti per esempio sul biometano e sull’idrogeno attribuibili al settore del gas”, a fronte di “investimenti nella mobilità elettrica notevolmente bassi paragonati a quelli degli altri Paesi Ue”. “La mancanza di sostegno ai pilastri della transizione, in particolare all’espansione dell’energia rinnovabile” fa valutare come “sicuramente positiva per l’ambiente” solo il 16 per cento della spesa italiana, e non il 40 per cento come rivendicato dal governo. “Un altro 26 per cento avrà a nostro avviso un impatto positivo o negativo a seconda di come le misure saranno attuate – specifica la ricercatrice del Wuppertal Institut Helena Mölter che ha curato il dossier sull’Italia –. È un difetto di diversi recovery plan che molte proposte, anche sull’ambiente, siano abbozzate, ancora da strutturare. Ma il vostro caso colpisce perché in gioco ci sono molti più miliardi che negli altri Paesi. La Francia, per esempio, avrà meno della metà dei finanziamenti, l’Ungheria poco più di sette miliardi”.
Il governo guarda ancora al gas (una fonte fossile) per almeno cinque (Brindisi, Civitavecchia, La Spezia, Monfalcone e Venezia) delle sette centrali a carbone ancora attive in Italia
Con un pacchetto di quasi 90 miliardi solo per l’ambiente si poteva programmare una svolta verde. Invece si procede ancora spediti col fossile. È in partenza la metanizzazione della Sardegna, ed è di questi giorni l’autorizzazione del ministero della Transizione ecologica per trasformare a gas anche la centrale a carbone A2A del porto di Monfalcone, in Friuli. La decisione blocca la proposta urbanistica del Comune e dei cittadini di riconvertire l’area in un attracco per grandi navi alimentato da fonti rinnovabili. E si guarda al gas per almeno cinque (Brindisi, Civitavecchia, La Spezia, Monfalcone e Venezia) delle sette centrali a carbone rimaste attive. “Una politica energetica nazionale schiacciata sulle richieste delle grandi imprese, in particolare dell’Eni, quando dovrebbe essere lo Stato, attraverso i governi, a orientare la transizione ecologica”, commenta l’esperto di energia Matteo Leonardi del think tank per il clima Ecco, che supporta il progetto green della comunità di Monfalcone. “Questa impostazione obsoleta non permette lo sviluppo delle rinnovabili nell’elettrico. Tecnologie sostenibili e sempre più economiche, ma non abilitate a operare”.
Il deserto delle aste per le rinnovabili
In Italia le ultime aste sulle rinnovabili sono andate semideserte. Anche per effetto del meccanismo del capacity market, il mercato delle capacità del quale beneficiano le centrali termoelettriche esistenti o in progettazione come le nuove a gas: “Attraverso le aste, le società di questi impianti possono aggiudicarsi dalla rete di trasmissione Terna contratti di 15 anni pagati dai costi in bolletta per la nuova capacità a fornire energia, anche solo durante black out o altre emergenze”, spiega Leonardi. Così mentre queste centrali vivranno di rendite sicure fungendo da riserva “non si investirà a sufficienza per aprire il mercato alle rinnovabili e per potenziarne gli accumuli”. La spesa nel Pnrr per agrisolare e agrivoltaico ammonta a poco più di due miliardi e mezzo, appena 680 milioni per l’eolico.
Secondo il Renewable energy report del 2021 del Politecnico di Milano, le rinnovabili restano un “potenziale teorico”, a causa della difficoltà di accedere alle aste e ottenere le autorizzazioni per parchi e impianti, anche per via delle regolamentazioni tortuose. Mentre nel resto d’Europa soprattutto l’eolico vive un boom, in Italia la nuova potenza installata da rinnovabili nel 2020, riporta lo studio del Politecnico, è calata di “circa 427 megawatt rispetto al 2019 (-35,4 per cento)”. A causa soprattutto del crollo di nuovi impianti eolici (-79 per cento).
Si giustifica la transizione attraverso il gas, che rilascia nell’ambiente circa la metà di CO2 del carbone, perché altrimenti il Paese si fermerebbe: non esistono ancora reti decentrate diffuse per le rinnovabili, come quelle disegnate nei progetti per Civitavecchia e Monfalcone che non vengono presi in considerazione. Eppure in Europa una strada così spianata al low carbon è percorsa solo dalla Polonia che dipende per l’80 per cento dall’energia a carbone e ha molti meno fondi Ue per la ripartenza, circa 36 miliardi. Per superare il veto polacco al Green deal, l’europarlamento ha approvato – con il voto contrario dei Verdi – una mozione sull’idrogeno blu dal gas, come “ponte” per quello verde: “Un ruolo provvisorio, necessariamente limitato al breve termine”, ha chiarito il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans. La Polonia ricca di miniere sta comunque dando forti incentivi per l’eolico e il fotovoltaico. Anche la Germania che fatica a uscire dal carbone ha stanziato nove miliardi di euro per l’idrogeno solo da fonti rinnovabili.
Per l’Italia dovrebbe essere un vantaggio che il carbone da tempo non sia più strategico: importato per la quasi totalità, genera circa il 10 per cento dell’elettricità. Ma spingendo i gruppi dell’energia a godere degli introiti quindicennali del capacity market anziché a investire sulle rinnovabili, si rischia lo stesso di fallire il target europeo del 72 per cento del fabbisogno energetico da fonti rinnovabili entro il 2030. Una quota che secondo i dati Enea del 2020 nel Paese è al 20 per cento: anche il ministro Cingolani ammette la “corsa pazzesca per installare 70 miliardi di watt di impianti rinnovabili”. Il 72 per cento della nostra elettricità viene ancora dal fossile, che per capacità potrebbe servire l’intero fabbisogno nazionale: la potenza delle centrali a gas copre infatti già quasi il doppio della domanda massima sulla rete, dai dati Terna del 2019 precedenti alla pandemia. Ora a queste centrali se ne aggiungeranno altre, un trend difficilmente comprensibile vista l’abbondanza di sole e vento. Contattato telefonicamente e via mail, il ministero della Transizione ecologica non ha risposto alle nostre domande.
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