Cosa sta emergendo in commissione antimafia sulla morte di Paolo Borsellino?

Da settembre, a Palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare antimafia, si tengono lunghissime audizioni intorno a questioni che, da oltre trent’anni, appaiono irrisolte. Perché è stato ucciso Paolo Borsellino? Perché è stato uno dei procuratori che ha sostenuto l’accusa nel maxiprocesso a Cosa nostra, da poco arrivato a sentenza definitiva di condanna? Perché aveva scoperto la trattativa tra Stato e mafia per mettere fine a omicidi e stragi, oppure perché invece voleva approfondire un’inchiesta sugli intrecci degli affari tra grandi aziende nazionali e Cosa nostra? La presidente Chiara Colosimo (Fratelli d’Italia) ha accolto la richiesta di Lucia, Fiammetta e Manfredi Borsellino, i figli del magistrato, di approfondire alcuni aspetti che ritengono non trattati adeguatamente, ma su cui si dibatte da decenni, nei palazzi di giustizia e fuori.

Gli esiti degli ultimi processi su Paolo Borsellino

Ancora poco si sa sulle ragioni dietro la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, che provocò la morte del procuratore aggiunto di Palermo e degli agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. Perché la commissione antimafia torna a occuparsene adesso?

La richiesta dei figli del magistrato è partita dopo alcune tappe giudiziarie:

la sentenza definitiva del processo Borsellino quater, che nel novembre 2021 ha accertato i depistaggi compiuti nelle indagini dopo la strage e la falsità delle rivelazioni del finto pentito Vincenzo Scarantino;

il processo “Depistaggio” contro tre poliziotti che hanno “istruito” il finto pentito, concluso in primo grado con l’assoluzione di un imputato e il proscioglimento per prescrizione degli altri due;

l’esito definitivo del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, con l’assoluzione degli ufficiali del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri, il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, accusati di “minaccia a Corpo politico dello Stato”.

Proprio i due ex ufficiali dei carabinieri, al termine della loro vicenda giudiziaria, hanno rilanciato (attraverso libri, interviste e conferenze) la versione secondo cui Borsellino sarebbe stato ucciso per fermare l’indagine sul dossier Mafia-appalti, inchiesta da loro condotta.

A questi episodi, inoltre, vanno aggiunti altri documenti pubblicati di recente, come i verbali delle audizioni al Consiglio superiore della magistratura delle toghe palermitane dopo la strage, o anche le due relazioni della commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana presieduta da Claudio Fava, con molte audizioni dei protagonisti di quel periodo.

Trattativa Stato-mafia: ci fu, ma il reato è solo dei boss

L’impulso di Fratelli d’Italia e gli interessi della destra

Va inoltre considerato l’arrivo al potere di Fratelli d’Italia. Già nel 2019, durante la diciottesima legislatura, e all’inizio dell’attuale i parlamentari di FdI avevano depositato proposte di legge identiche per istituire una “commissione parlamentare di inchiesta sulle cause della mancata individuazione dei responsabili della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992”, la prima volta a firma di Giorgia Meloni che, ricorda spesso, ha deciso di iscriversi al Fronte della Gioventù (formazione giovanile dell’Msi prima e di An dopo) proprio quel giorno, come reazione all’attentato mafioso.

Ma oltre a questa ricerca di verità, per la destra è un’occasione per difendere gli ufficiali del Ros e attaccare quei pm, come Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato (ora senatore M5s), che in passato hanno “osato” collegare le stragi a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (esemplificative, ad esempio, sono le dichiarazioni sul tema del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che non usa mezzi termini).

La denuncia di Lucia Borsellino

“Siamo qui per riproporre anche queste istanze volte alla conoscenza piena della verità sulla strage di via D’Amelio”Lucia Borsellino

“Siamo qui per riproporre anche queste istanze volte alla conoscenza piena della verità sulla strage di via D’Amelio”, ha detto Lucia Borsellino nel corso della prima audizione, “un onere non indifferente, per l’impegno che circostanze come questa richiedono sotto il profilo emotivo”. La famiglia Borsellino sostiene che le indagini compiute non abbiano preso in considerazione, in parte o del tutto “atti, documenti e prove testimoniali” utili a comprendere il contesto in cui lavorava il magistrato e il suo “profondo stato di prostrazione e di isolamento”.

Uno dei punti più importanti sollevati è “il buio istituzionale che avvolge la vicenda della sottrazione dell’agenda rossa”, che ha danneggiato le indagini “perché sarebbe stata una fonte inoppugnabile di informazioni”. Questo è il “primo tassello del depistaggio”. Lucia Borsellino ha denunciato anche “il silenzio e i non ricordo di molti uomini delle istituzioni” e molte altre lacune. Il comportamento dell’allora questore di Palermo Arnaldo La Barbera e il mancato coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta, ad esempio sulla gestione del pentito Vincenzo Scarantino (rivelatosi poi un “burattino” imboccato dalla polizia, a cui moltissimi giudici hanno dato credito), fattore che avrebbe permesso di scoprire prima il depistaggio. C’è poi la mancata audizione del procuratore di Palermo Pietro Giammanco come persona informata sui fatti o ancora la mancata acquisizione dei tabulati delle chiamate in entrata sul telefono portatile di Borsellino.

Se manca l’agenda rossa, su cui gli inquirenti sono ancora al lavoro (proprio in autunno sono state eseguite nuove perquisizioni ai familiari di La Barbera), Lucia Borsellino ha messo a disposizione della commissione l’agenda marrone, che fu consegnata alla famiglia con la borsa del padre: “Noi ne siamo in possesso da trent’anni senza avere mai saputo se questa agenda ha mai avuto alcuna attenzione sotto il profilo delle indagini (…). Ho chiesto a mio fratello di fornire a questa commissione le copie scansionate della rubrica telefonica che io vi consegnerò”. Da quei numeri si potrà capire qualcosa? “Sarà mio padre a far comprendere chi erano le persone di cui si fidava e quelle di cui non si fidava”.

Trattativa Stato-mafia sui media

La ricostruzione dell’avvocato Fabio Trizzino

“Fino al 2015, per motivi anche intuibili, la famiglia si è tenuta lontana da queste carte per un motivo molto semplice. Noi non viviamo più, l’elaborazione del lutto è impossibile”, ha detto nel corso di una delle audizioni l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino e marito di Lucia Borsellino, fornendo ai parlamentari una mole impressionante di informazioni, nomi, rimandi. L’avvocato ha voluto fornire una versione diversa da quella legata alla trattativa Stato-mafia, secondo cui Borsellino aveva scoperto le interlocuzioni tra il Ros e la mafia per il tramite di Vito Ciancimino, con una serie di richieste dei boss allo Stato, tipo l’allentamento di norme antimafia come il carcere duro.

Due sono i principali argomenti che Trizzino ha posto all’attenzione dell’Antimafia e dell’opinione pubblica: Borsellino voleva indagare sull’intreccio affaristico tra grandi aziende italiane, Cosa nostra e politici, politici che però avrebbero goduto di una qualche protezione da parte di Giammanco, il quale avrebbe spinto per archiviare l’indagine. Il capo della procura di Palermo avrebbe quindi ostacolato Borsellino, isolandolo e umiliandolo.

La procura di Palermo, “il nido di vipere”

“Dobbiamo cercare di capire perché quell’uomo definì il suo ufficio ‘un nido di vipere'”, ha detto l’avvocato ricordando una definizione di Borsellino sulla procura in cui lavorava. Borsellino aveva anche confidato alla moglie che se fosse morto, “quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”. Per questo, insiste Trizzino, “dobbiamo andare a cercare dentro l’ufficio della procura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione, indicazione come target”.

Giammanco – ha ricordato Trizzino – aveva ostacolato Borsellino che, tornato a Palermo come procuratore aggiunto il 1° marzo dopo alcuni anni alla guida della procura di Marsala, doveva occuparsi delle indagini riguardanti le province di Trapani e di Agrigento, anziché dell’area del capoluogo, e non aveva avuto la delega a interrogare il pentito Gaspare Mutolo, mafioso che aveva cominciato a collaborare e voleva confidarsi soltanto con lui. Borsellino – ha sottolineato l’avvocato dei figli – subì un’umiliazione perché dovette chiedere ai suoi sottoposti di intercedere presso il superiore al fine di lavorare sull’indagine Mafia-appalti e interrogare Mutolo.

Inoltre sul suo capo Borsellino avrebbe ottenuto informazioni negative: “Molto probabilmente ha appreso sul conto del procuratore Giammanco delle notizie così terribili che lo portano a interrompere il flusso delle comunicazioni”, ha affermato Trizzino. Quali notizie, non è dato saperlo, ma potrebbero riguardare la sua vicinanza al mondo politico coinvolto nelle indagini.

Fatto sta che, dopo l’attentato, Giammanco è stato spinto verso le dimissioni dai suoi “sottoposti” (con una racconta di firme promossa dall’allora sostituto procuratore Scarpinato). Tuttavia la procura di Caltanissetta, competente a indagare sulle morti di Falcone e Borsellino, non ha mai interpellato Giammanco come persona informata sui fatti nel corso delle indagini su via D’Amelio. Ma quindi possiamo ritenere Giammanco responsabile diretto della strage contro Borsellino? “Non ho indicato Giammanco come mandante”, ha precisato Trizzino nella sua seconda audizione.

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L’indagine Mafia-appalti

“Le sentenze passate in giudicato (Borsellino ter, Borsellino quater in particolare) hanno sempre posto l’accento sull’interesse di Paolo Borsellino sull’indagine denominata Mafia-appalti”, è un passaggio dell’audizione di Trizzino. Fa riferimento a un’inchiesta del Ros dei carabinieri nata da un impulso di Giovanni Falcone nel 1989 sulla spartizione di appalti pubblici e tangenti tra politica e Cosa nostra.

Trizzino faceva riferimento un rapporto di indagine del 16 febbraio 1991 (in realtà, un’annotazione, meno completa) su cui sarebbe sorto un dissidio tra carabinieri e pm, coi secondi che volevano archiviare il filone d’indagine su politici e imprenditori e i primi contrari. “Questo rapporto a mio giudizio, nella sua imperfezione, ma adeguatamente sviluppato, era molto di più che una ‘mazzetta’ (nel senso di un semplice episodio di corruzione, ndr). Avrebbe mirato al cuore del sistema”, ha detto. Il sistema, come si è appurato nei processi degli anni seguenti, era chiamato “tavolino”: la mafia si sedeva al tavolo con le grandi aziende nazionali, come la Rizzani De Eccher o il Gruppo Ferruzzi, quest’ultima in affari con un’impresa della famiglia Buscemi di Cosa nostra.

Da quell’informativa erano scaturiti dei primi arresti il 9 luglio 1991, tra cui quello di Angelo Siino, mafioso e imprenditore, uomo di Totò Riina e “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, e il capo area della Rizzani De Eccher, il geometra Giuseppe Li Pera. Gli arresti non riguardavano i politici, che sarebbero stati invece coinvolti in un filone dell’indagine che nel 1992 (a Milano è in corso l’indagine Mani Pulite) la procura voleva archiviare, è la tesi di Trizzino. Borsellino non voleva archiviare quel procedimento, ha ricordato l’avvocato aggiungendo che il 25 giugno il pm incontrò in segreto gli ufficiali del Ros Mori e De Donno nella caserma “Carini”, “fuori dall’ufficio della procura, perché avrà scoperto delle cose tremende sul conto del suo capo”, tanto che – stante alla testimonianza del maresciallo Carmelo Canale riferita da Trizzino – avrebbe voluto farlo arrestare. 

Borsellino voleva quindi intaccare un sistema di potere consolidato. “Non si può ammazzare Borsellino e sperare che lo Stato non reagisca – ha aggiunto Trizzino –. Quindi ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina va sopra gli interessi dell’organizzazione e deve fermare i magistrati su suggerimento di terzi, quei magistrati che possono mettere in pericolo il già morente sistema dei partiti”. L’avvocato non ha azzardato ipotesi su chi siano questi “terzi”, ma ha ricordato che oltre a Falcone e Borsellino nel mirino c’era anche Antonio Di Pietro, sostituto procuratore di Milano titolare dell’indagine Mani pulite. Sia lui, sia Borsellino erano consapevoli che, con il loro lavoro, sarebbero arrivati ai politici.

Il 13 luglio 1992 la procura firma la richiesta di archiviazione del fascicolo in cui compaiono nomi come i fratelli Buscemi e il geometra Giuseppe Li Pera, accusati di associazione mafiosa. Quest’ultimo uomo, arrestato nel luglio 1991, non fu però interrogato dai pm di Palermo, un altro elemento su cui Trizzino ha sollevato dei dubbi, ma su cui – come riveleranno altri magistrati auditi dall’Antimafia – ci sono versioni diverse.

Leggi “Trent’anni dopo”, lo speciale sulle stragi del 1992

Lo scontro con Scarpinato

Roberto Scarpinato, oggi senatore del M5s, è stato il primo a intervenire con un riepilogo degli arresti, dei processi, delle condanne e delle autorizzazioni a procedere chieste dalla procura al parlamento nei confronti di onorevoli siciliani della Dc per indagini sugli appalti, tutte cose avvenute dal 1992 in poi, per dimostrare che l’archiviazione dell’indagine Mafia-appalti riguarda in realtà una piccola parte di un’indagine più ampia, non interrotta il 13 luglio 1992.

Trizzino ha invece accusato Scarpinato di non ricordare bene. Gli onorevoli Paolo Pittalis (FdI) e il leghista Gianluca Cantalamessa hanno colto al balzo l’occasione di imputare all’ex pm un presunto conflitto di interessi, col primo che ha sollevato addirittura questioni sulla “opportunità di permanenza nella commissione”.

E la pista su “Gladio”?

Il dem Giuseppe Provenzano e altri hanno chiesto del coinvolgimento di Gladio, struttura clandestina che legava servizi segreti ed estrema destra in chiave anticomunista, e dei Nuclei armati rivoluzionari, formazione neofascista, ambiti su cui Falcone aveva scoperto qualcosa. Secondo Trizzino, Falcone avrebbe appurato che la pista non aveva riscontri. “Su Gladio io credo che Falcone sia tranciante. A un certo punto, dice: ‘Io ho indagato, ho fatto le indagini ed escludo che Gladio possa essere interessata nell’ambito dei delitti politici svolti a Palermo’”, è la riflessione che Trizzino attribuisce a Falcone.

Ha aggiunto un tassello. “Quando uccidono Falcone, Borsellino dice ad Alberto Di Pisa: ‘Questa è una strage per stabilizzare, non per destabilizzare’ (…) Non c’entrano l’eversione nera, Gladio o massoneria, ma il sistema dei partiti. (…) Perché pensano ancora che utilizzando le stragi si possa… come facevano ai tempi … ma non è Stefano Delle Chiaie (terrorista di destra, ndr), la massoneria, non lo so… Quelle piste sono state solcate.?Se ci sono novità denunciatele, fate le vostre inchieste. Noi stiamo proponendo un’altra rilettura che è stata totalmente negletta”.

Nel corso della terza audizione, Trizzino si è lasciato andare a un lungo sfogo: “In questi anni si è parlato solo del processo Trattativa, quando noi a Caltanissetta stavamo scoprendo il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, oggi considerato prodromico e propedeutico all’assassinio di Borsellino e dei suoi angeli custodi, e sui giornali non c’era una riga, una, e venivano santificati…? E su chi stava combattendo a Caltanissetta un’altra battaglia, molto più decisiva c’era il silenzio assoluto. Quel silenzio che continua. E qualche giornalista chiama me depistatore. No, noi i depistaggi li abbiamo subìti e oggi abbiamo contribuito a scoprirli”. Faceva riferimento, ad esempio, alle bugie di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco Dc Vito Ciancimino, vicinissimo a Cosa nostra. Trizzino non ha usato mezzi termini per dire che “è il momento del redde rationem”, della resa dei conti.

Cosa dicono Salvatore Borsellino e Fabio Repici?

Ascoltato il 18 ottobre e poi il 6 novembre, il fratello di Paolo, Salvatore Borsellino, per prima cosa ha espresso solidarietà a Scarpinato e a Nino Di Matteo (mai citato nelle audizioni, ndr) “per avere in questi lunghi anni ricercato con tutte le loro forze quella verità e quella giustizia”. “I magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito sono Giovanni Tinebra (ex procuratore di Caltanissetta, morto nel 2017, ndr), che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di aver avvallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi, e Pietro Giammanco”, ha detto.

Secondo il suo avvocato Fabio Repici, la pista Mafia-appalti può essere definita “come una sorta di pista palestinese su via D’Amelio”. Il riferimento è alla strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980 e a quell’ipotesi investigativa che voleva addebitare le responsabilità dell’attentato a presunti terroristi palestinesi anziché all’estrema destra (i Nuclei armati rivoluzionari) con il contributo della massoneria deviata, la P2 di Licio Gelli. “Da qualche tempo intorno alla strage di via D’Amelio in particolare, ma anche intorno ad altri delitti ai quali hanno partecipato in modo possente Cosa nostra o altre organizzazioni criminali, che si avverte la pratica di un pericolosissimo fenomeno a mezza via fra il negazionismo e il revisionismo”.

Le testimonianze dei magistrati ridimensionano quanto afferma Trizzino

Sul resoconto fatto da Trizzino in merito all’indagine Mafia-appalti, le audizioni di tre testimoni dell’epoca, Antonio Di Pietro, Luigi Patronaggio e Gioacchino Natoli, sembrano ridimensionare alcune questioni.

La versione di Antonio Di Pietro

I colleghi di Palermo “avevano già indagato, stavano già indagando sugli stessi personaggi, evidentemente c’erano arrivati a prescindere da noi”Antonio Di Pietro

Ascoltato in due riprese, l’ex pm di “Mani pulite” e poi politico ha ripercorso la storia dei suoi contatti con Falcone e Borsellino e le sue indagini ,che lo portarono da Milano a vagliare anche il sistema corruttivo-mafioso in Sicilia. Ha ricordato gli incontri in via Arenula: “Quando andavo al ministero per parlare con il dottor Falcone, ho incontrato qualche volta anche il dottor Borsellino”. Con loro si confrontava sulle dichiarazioni rese dagli imprenditori indagati: “Tutti quanti (gli imprenditori, ndr) mi dicevano: ‘Ammetto tutto fino a Roma, ma da Roma in giù non dico più nulla’. E io mi domandavo: possibile che da Roma in giù non ci siano stati illeciti negli appalti? Di questo si era accorto non solo Falcone, ma anche e soprattutto Borsellino”. Per questo, al funerale Falcone, i due pm si dicono “Dobbiamo fare presto”.

Tuttavia, dopo la strage di via D’Amelio, Di Pietro era rimasto senza un interlocutore a Palermo fino a quando alla procura siciliana, nel 1993, arriva Gian Carlo Caselli. Grazie a lui e a Francesco Saverio Borrelli, a capo della procura meneghina, nasce una collaborazione. A detta di Di Pietro, a Palermo i suoi colleghi “avevano già indagato, stavano già indagando sugli stessi personaggi, quindi evidentemente c’erano arrivati a prescindere da noi”. Un accordo prevedeva che Di Pietro avrebbe proseguito le sue indagini e, una volta scoperti presunti reati commessi in Sicilia, avrebbe trasmesso gli atti. Di Pietro ha ridimensionato anche quanto detto da Trizzino su Li Pera. Ha ricordato quando, contattato da De Donno, riceve l’invito a interrogare il geometra rinchiuso a Rebibbia nell’ambito di un’indagine palermitana. L’uomo ha informazioni utili e non riesce a interloquire coi pm siciliani. “Non mi danno retta”, dice al magistrato milanese. Di Pietro interroga il geometra, che però non dichiara nulla di sconvolgente: “C’erano dichiarazioni molto più grosse, c’era il processo Enimont. Voglio dire erano poca cosa le questioni di Li Pera”.

Di Pietro si è posto e ha posto anche una domanda fondamentale: “È possibile che tutto questo possa aver generato la volontà di convincere qualcuno ad aizzare chi già voleva ammazzare Falcone e Borsellino? E – se così fosse – tale impulso è stato trasmesso dal sistema della politica corrotta o delle imprese corruttrici? E da chi, in particolare?”. A questo quadro, Di Pietro ha aggiunto un tassello: il dossieraggio contro di lui attuato dai servizi segreti per conto di Bettino Craxi, politico socialista ed ex presidente del Consiglio coinvolto nel sistema di tangenti. Quindi chi può invece aver avuto interesse nel far fuori Borsellino? Di Pietro non ha azzardato ipotesi, ma si è soffermato su Raul Gardini (a capo del Gruppo Ferruzzi) e i suoi interessi in Sicilia, sottolineando come una buona parte della maxi-tangente Enimont (società del gruppo Ferruzzi) fosse destinata alla corrente andreottiana della Democrazia cristiana: “Cinque miliardi della tangente Enimont erano andati a finire all’onorevole Salvo Lima (assassinato da Cosa nostra il 12 marzo 1992, ndr) e Lima era il referente di Giulio Andreotti in Sicilia”. Tuttavia non ha potuto indagare oltre sia perché Gardini si è suicidato prima dell’interrogatorio, sia perché lo Ior, la banca del Vaticano, non ha mai fornito le informazioni sui bonifici.

Cosa ha detto Patronaggio?

“C’erano anche sospetti su certe contiguità politiche tra Giammanco e apparati politici allora dominanti in Sicilia” Di questo il Ros ritengo fosse a conoscenza”Luigi Patronaggio – Attuale procuratore generale di Cagliari

Quella sul rapporto Mafia-appalti è una “complessissima vicenda”, l’ha definita Luigi Patronaggio. L’attuale procuratore generale a Cagliari ha ricordato come Borsellino, in ottimi rapporti coi carabinieri di cui “aveva recepito quelle che erano le aspettative”, “voleva sapere un po’ di più sugli imprenditori e sul ruolo dei politici” nel corso della riunione del 14 luglio, giorno successivo all’archiviazione dell’indagine. Borsellino manifestò dissenso per quella scelta? A una domanda di Salvatore Sallemi (FdI), Patronaggio ha risposto: “Se lei mi vuole dire che Borsellino tentò di fermare l’archiviazione, le dico no, assolutamente no. Se lei mi chiede se Borsellino avesse chiesto altro tempo per rivederlo, non lo posso escludere”.

All’Antimafia ha precisato che quel rapporto, “nella sua versione del 20 febbraio 1991 (…) non è un rapporto. In realtà è una annotazione”, con moltissime intercettazioni su cui però c’erano “problemi di utilizzabilità” perché “queste intercettazioni avevano grosse difficoltà a essere lette ed essere interpretate, a collocarle nella giusta dimensione investigativa”. Questa diatriba tra l’Arma e la procura era evidente e “dolorosissima”. “Devo con altrettanta onestà intellettuale dire che il procuratore di allora, Giammanco (…) non era all’altezza di quel periodo drammatico che stavano vivendo la Sicilia e l’Italia – ha aggiunto –. Quella di Giammanco era comunque una procura gestita in modo verticistico, in modo burocratico. C’erano anche sospetti su certe contiguità politiche tra Giammanco e apparati politici allora dominanti in Sicilia. Di questo il Ros ritengo fosse a conoscenza”.

Patronaggio ha ritenuto inoltre falso che la procura di Palermo fosse immobile sul fronte mafia e appalti: ha ricordato gli arresti del febbraio 1992, tra i quali spicca quello di Vito Buscemi, fratello di Antonino della famiglia mafiosa di Palermo Boccadifalco, “un filo lungo che porterà al controllo di ‘Calcestruzzi’ in Sicilia, a collegamenti con la Calcestruzzi ravennate, con il gruppo Ferruzzi”. Quindi quell’indagine non era morta e sepolta con l’archiviazione del 13 luglio. Anzi, si era già aperto un fronte sulla Sirap, società della Regione Sicilia per la gestione dei grossi appalti, “dove c’erano convivenze pesantissime tra la politica regionale e Cosa nostra”.

Poi, con l’arrivo di Caselli nel 1993, è sorto un nuovo gruppo di lavoro: “La procura, sotto la guida di Gian Carlo Caselli, cambiò decisamente registro ed è altrettanto vero, peraltro, che anche le indagini della vecchia procura, prima di questo rapporto Mafia-appalti, non è che fossero totalmente ferme”. Viene creato un procedimento in cui confluiscono i materiali già raccolti e poi le dichiarazioni di pentiti come Mutolo, Baldassarre Di Maggio e Salvatore Cancemi. Non quelle degli imprenditori: “Gli imprenditori del nord, quando venivano al sud, non avevano voglia di parlare di mafia”. Patronaggio ha offerto una versione diversa da quella di Trizzino: “Aveva opposto un rifiuto a collaborare” perché i carabinieri, di cui Li Pera era confidente, non si fidavano della procura palermitana.

Cosa ha detto Gioacchino Natoli?

Nella sua ricostruzione, Trizzino si è soffermato anche su un episodio, cioè l’invio a Palermo di atti investigativi della procura di Massa Carrara che, impegnata in indagini sulla gestione delle cave di marmo, aveva scoperto intrecci tra società di Antonino Buscemi, imprenditore mafioso, e quelle del gruppo Ferruzzi. Trizzino ha accusato alcuni magistrati di Palermo di aver insabbiato prove fondamentali.

Uno di loro, l’ex pm Gioacchino Natoli, ha voluto rispondere nel merito alle “gravissime insinuazioni e accuse”, tra cui quella di aver fatto distruggere delle intercettazioni arrivate da Massa. Ma non esistevano, erano state disposte dai pm siciliani, non fornirono prove e sono ancora conservate negli archivi. Natoli ha fornito una testimonianza diretta e diversa sull’archiviazione e ha fatto notare anche lo “schiacciamento di conoscenze” di Trizzino: “Tutte le preziose conoscenze sul sistema Mafia-appalti avutesi esclusivamente a partire dalla fondamentale collaborazione di Siino del luglio 1997 e dopo le dichiarazioni di Giovanni Brusca del periodo 1998/99 avrebbero dovuto essere conosciute e valorizzate dai pm Lo Forte e Scarpinato in anticipo rispetto alla storia, cioè al momento della richiesta di archiviazione depositata il 13 luglio 1992”. Il 1° febbraio, Natoli ha affermato con amarezza: “Tutto mi sarei aspettato all’inizio della mia carriera tranne di essere gratificato della sola ipotesi, del solo sospetto di aver contribuito, in tutto o in parte, ad aver ucciso un fraterno amico”.

Dopo le ipotesi di Trizzino, i parlamentari hanno ascoltato testimoni diretti dell’epoca che hanno corretto il racconto su alcuni aspetti. Poco è emerso finora sulle ragioni dietro la strage di via d’Amelio. La commissione andrà avanti nelle audizioni. A distanza di decenni, con molti testimoni chiave ormai scomparsi, sarà complesso arrivare a una verità storica, dovuta ai figli di Borsellino.

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