Carcere, suicidio in una casa di lavoro
«Internati si chiamavano gli ebrei nei campi, non sarà un caso. Cà nun s’esce mai». Con queste parole, nel maggio 2023, una delle persone sottoposte alla misura di sicurezza della casa di lavoro – un internato, appunto – provava a restituire a un gruppo di ricercatrici e ricercatori de La società della Ragione, la violenza e la profonda ingiustizia della misura di sicurezza detentiva per imputabili.
La casa di lavoro è una duplicazione della pena detentiva, che scatta per una sparuta minoranza di persone – le persone internate oscillano tra 200 e 300 in Italia, a fronte di una popolazione detenuta che negli ultimi anni varia tra 50.000 e 65.000 detenuti – dopo aver integralmente scontato la propria condanna. Una «integrazione dei mezzi repressivi», come la definiva il Guardasigilli Rocco, invenzione di un regime autoritario.
Queste poche persone – etichettate, con i termini lombrosiani e del positivismo criminologico che ancora albergano nel nostro Codice penale, «delinquenti abituali», «professionali» o «per tendenza» – si trovano per un tempo indeterminato sottoposte a misure di privazione della libertà personale, in sezioni degli istituti penitenziari a loro dedicate, costantemente soggetti a possibili proroghe, a prescindere dalla propria condotta all’interno dell’istituzione. Gli internati sono detenuti con minori diritti e con affievolita speranza. Addirittura nel codice si definiscono «di indole particolarmente malvagia».
Si chiamano case di lavoro, perché ambivano a rieducare attraverso il lavoro, arbeit macht frei era l’ideologia di fondo, ma – per quanto questa ideologia sia criticabile – oggi occorre rilevare che il lavoro, in casa di lavoro, non c’è e che, in queste strutture, non è infrequente che siano presenti persone inabili al lavoro.
Qualche giorno fa, il 3 luglio 2025, presso la casa di lavoro di Aversa, nel corso del Convegno “Delinquenti abituali, professionali o per tendenza – dall’art. 216 del Codice penale alla garanzia di appropriate risposte ai bisogni sociosanitari individuali”, il Procuratore generale della Corte d’appello di Napoli, Aldo Policastro, ha affermato che la misura di sicurezza «è archeologia criminale, è un intendere il rapporto tra società e devianza, nei termini della contenzione». Un concetto ribadito, in quel consesso, anche da Paola Cervo, magistrata di sorveglianza presso il Tribunale di sorveglianza di Napoli, che ha ricordato che le norme che disciplinano le misure di sicurezza sono «retaggio del legislatore fascista» e che risentono dell’impostazione di quel legislatore: «Per cui certe persone turbavano l’ordine sociale, turbavano il buon costume, la vita tranquilla dei consociati e quindi andavano prese e tolte di mezzo».
Contenzione, annientamento, esclusione, sembrano le parole chiave di questa misura che, come ha ricordato in numerose occasioni l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, «dovrebbe far vergognare una democrazia fondata sui principi del rispetto della dignità di ogni persona e della solidarietà verso i più deboli, sanciti nella nostra Costituzione repubblicana».
Una misura che deve essere cancellata, senza indugi.
Nella scorsa legislatura e nell’attuale, l’on Magi ha depositato un disegno di legge (A.C. 158 – XIX legislatura), che prevede la cancellazione della misura di sicurezza detentiva per imputabili e la revisione della libertà vigilata, una proposta che deve essere ripresa e sostenuta da una più larga schiera di parlamentari e che dev’essere promossa da associazioni, attivisti e movimenti.
Intanto, la tragica realtà bussa alle nostre porte ed è notizia recente che una persona di quarant’anni nella casa di lavoro di Vasto si sia tolta la vita. È la trentanovesima persona a scegliere il suicidio nel sistema penitenziario italiano, dall’inizio dell’anno. Non si può tacere.
Per approfondimenti: Giulia Melani, Un ossimoro da cancellare, Menabò 2024
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