Canapa light, Italia sola contro tutti

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Il proibizionismo, si sa, fa sempre più danni di quelli che vorrebbe evitare. E la lotta senza quartiere, e senza ragione, del governo alla cannabis non fa eccezione, riuscendo peraltro nella straordinaria impresa di coniugare politiche repressive, danni economici e posizioni antiscientifiche. Nonché meramente ideologiche: il tono è sempre quello della crociata, della lotta all’ultimo sangue a una presunta piaga sociale ignorando dati, evidenze, resoconti, rapporti, anni e anni di studi. Era il 2016 quando l’Italia finalmente decise di promuovere la coltivazione della canapa, compresa la cannabis cosiddetta light, quella cioè con un contenuto di Thc (il principio psicoattivo della pianta) inferiore allo 0,2 per cento. Meno di dieci anni dopo si vuole procedere ad un passo indietro, un dietrofront che cancellerebbe i progressi fatti in tutto questo tempo.

Qualche dato aiuta a chiarire i termini della questione: la canapa industriale, in Italia, è un settore in forte crescita, coinvolge quasi 3000 aziende, può contare su circa 2000 ettari coltivati e produce un giro d’affari da 500 milioni di euro annui. Si tratta inoltre di una filiera innovativa e sostenibile: la canapa industriale contribuisce alla riduzione dell’impatto ambientale grazie alla sua capacità di assorbire CO₂, rigenerare i suoli e sostituire materiali inquinanti. Le sue applicazioni coprono diversi settori, dalla bioedilizia all’alimentazione, dalla cosmesi al tessile. In questi anni è stata capace di valorizzare territori agricoli marginalizzati, a rischio spopolamento o in via di abbandono. Già questo basterebbe a spiegare che ostacolarne lo sviluppo è una follia priva di senso logico, anzi dannosa per la collettività. Ma c’è ovviamente di più. Con la proposta di uniformare la soglia di Thc per la canapa allo 0.5% in tutta l’Europa, Bruxelles sta offrendo un quadro ancora più stabile agli agricoltori coinvolti e questo potrebbe favorire nuovi investimenti e, di conseguenza, un’ulteriore crescita del settore. Secondo il compromesso votato in commissione agricoltura nel Parlamento Europeo, la nuova PAC (Politica agricola comune), «la coltivazione, raccolta, trasformazione e commercializzazione dell’intera pianta di canapa per fini industriali devono essere legali in tutta l’Ue». Con una soglia allo 0,5%, compatibile – per evidenza scientifica e giurisprudenza consolidata – con l’assenza di effetti psicotropi, si tutelano produttori, investimenti e innovazione, sostenendo quindi un comparto già in espansione e coerente con gli obiettivi ambientali e sociali dell’Unione. Meloni e il suo governo, però non sembrano inclini a raccogliere questa opportunità. Né appaiono troppo interessati a quanto scritto nell’ormai famosa ultima relazione del Massimario della Corte di Cassazione, uscita lo scorso 23 giugno, che evidenzia la palese assurdità dell’articolo 18 del decreto sicurezza, quello che vieta la vendita della cannabis light. Secondo l’ufficio del Massimario, il divieto presenta gravi criticità costituzionali e potrebbe violare il diritto europeo. I giudici sottolineano inoltre che non esistono evidenze scientifiche che dimostrino effetti droganti per prodotti con un contenuto di Thc inferiore a quelli previsti dalla legge del 2016. Inoltre, la norma compromette il principio di affidamento del privato, mettendo a rischio l’intero settore, che dà lavoro a circa 30.000 persone e restituisce un gettito fiscale di 150 milioni di euro. La strada tracciata, purtroppo, sembra essere quella dell’involuzione totale: non solo le aziende saranno costrette a scegliere se chiudere o delocalizzare (con tutti i problemi che questioni del genere portano con sé), ma si rischia anche di infrangere ancora una volta le regole europee. Perché? Per pura ideologia salvifica, perché la cannabis aprirebbe la strada alle droghe pesanti.

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