Canapa, il Consiglio di Stato chiama in causa la Corte UE

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Con un’ordinanza destinata a pesare sul futuro della canapa industriale in Italia, il Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea la questione della compatibilità tra il diritto UE e il divieto nazionale sulle infiorescenze e sui derivati della canapa “light”, coltivata da varietà ammesse e a basso tenore di THC. È un passaggio che non riguarda solo un segmento di mercato, ma l’impianto stesso con cui l’ordinamento italiano ha finora trattato la pianta di canapa e la sua filiera.

L’ordinanza nasce dal ricorso della Società Agricola Jure s.r.l. contro il decreto del Ministero dell’Agricoltura sulle piante officinali del 21 gennaio 2022, che rinviava per foglie e infiorescenze alla disciplina del DPR 309/90, escludendole di fatto dal perimetro della legge 242/2016 sulla canapa industriale. Il Consiglio di Stato, però, va oltre il singolo atto amministrativo e mette a fuoco l’intero intreccio normativo fra L. 242/2016 così come modificata dal decreto sicurezza, Testo unico sugli stupefacenti e diritto dell’Unione, a partire da un dato spesso rimosso nel dibattito interno: la normativa europea, quando ammette la coltivazione delle varietà di Cannabis sativa L. iscritte al Catalogo comune e con THC entro i limiti PAC, non distingue fra le diverse parti della pianta.

Su questo presupposto il Collegio formula alla Corte di giustizia due quesiti pregiudiziali che, in sostanza, chiedono se sia compatibile con il diritto UE un assetto nazionale che consente la coltivazione delle varietà ammesse di canapa, ma vieta o assoggetta al Testo unico sugli stupefacenti l’uso e la commercializzazione di foglie, infiorescenze e relativi derivati – inclusi oli, resine e prodotti a base di cannabidiolo – anche quando il contenuto di THC è estremamente basso e allineato alle soglie previste dalla PAC. In questo quadro il Consiglio di Stato non si limita a evocare un potenziale conflitto astratto, ma sottolinea come tali limitazioni producano restrizioni concrete all’importazione e all’esportazione all’interno dell’Unione, difficilmente giustificabili alla luce degli articoli 34–36 TFUE, proprio perché non emergono rischi effettivi per la salute o per l’ordine pubblico a fronte di livelli minimi di THC.

Un passaggio significativo dell’ordinanza riguarda anche il cannabidiolo. La produzione di CBD da canapa industriale, osserva il Collegio, risulta ormai pacificamente legale in numerosi Stati membri, il che accentua l’anomalia italiana e rende ancora più evidente l’effetto distorsivo delle barriere interne sulla libera circolazione delle merci e sulla concorrenza nel mercato unico. Da qui la conclusione, solo apparentemente prudente: è possibile che la legge 242/2016, letta in combinato disposto con il DPR 309/90 così come interpretato in questi anni, debba considerarsi non conforme alle norme europee e, in quanto tale, essere disapplicata dai giudici nazionali, con conseguente caducazione anche degli atti amministrativi fondati su quel quadro.

Nel frattempo, il legislatore è intervenuto con la riforma del 2025 – il nuovo articolo 18 del cosiddetto “decreto sicurezza” – restringendo ulteriormente il raggio d’azione del Testo unico. La novella ha recuperato la liceità di foglie e semi, sempre da varietà ammesse e nei limiti di THC, ma ha confermato e irrigidito il divieto proprio sulle infiorescenze e sui prodotti che le contengono, dagli estratti alle resine fino agli oli. Questa scelta, lungi dal chiudere il contenzioso, viene letta dal Consiglio di Stato come un’ulteriore dimostrazione di irragionevolezza: se l’Unione europea non distingue tra le parti della pianta e l’ordinamento nazionale ammette la circolazione di foglie e semi da varietà certificate a basso THC, mantenere un divieto penale selettivo solo sulle infiorescenze appare sempre più difficile da conciliare con i principi di non discriminazione e proporzionalità. Per questo la corte sottolinea che l’interesse al ricorso resta pienamente attuale: il divieto sulle infiorescenze e stato scritto nella 242/2016 così come modificata dall’ultimo intervento governativo e la risposta di Lussemburgo avrà ricadute dirette anche sul nuovo articolo 18.

L’avvocato Giacomo Bulleri, che ha seguito il ricorso insieme allo studio Legance, evidenzia come l’ordinanza riesca finalmente a mettere ordine in dieci anni di incertezze e contraddizioni: «Credo che questa ordinanza abbia colto in pieno le criticità emerse negli ultimi 10 anni e che continuano a creare confusione attorno alla canapa. La questione in realtà è molto semplice: la pianta di canapa nella sua interezza (proveniente da varietà certificate e con basso tenore di THC) è un prodotto agricolo, per cui la legge sugli stupefacenti non può trovare applicazione». La posta in gioco, nelle parole di Bulleri, non è solo la sopravvivenza di qualche negozio, ma il cambio di paradigma: «Mi auguro che il giudizio dinanzi alla Corte europea sia l’occasione per introdurre un doveroso discrimine in modo da cambiare definitivamente approccio alla questione, cioè smettere di criminalizzare una pianta e concentrarsi sulla qualità e sicurezza dei prodotti ottenuti in modo da poter sviluppare l’intero potenziale della filiera».

Se da un lato l’ordinanza mette in discussione l’impianto italiano proprio sul terreno europeo, dall’altro apre anche una prospettiva più immediata per gli operatori. Il Consiglio di Stato indica infatti che, in attesa della decisione di Lussemburgo, i giudici nazionali dispongono già degli strumenti per disapplicare le norme interne incompatibili con il TFUE. Questo significa che la questione non è confinata a un orizzonte remoto e che, già oggi, i tribunali possono valutare se il divieto sulle infiorescenze da varietà certificate e a basso THC debba cedere il passo alle garanzie della libera circolazione e del mercato interno.

Per Canapa Sativa Italia si tratta di un passaggio che, pur non essendo una sentenza definitiva, ridisegna i confini del campo da gioco. Mattia Cusani, presidente dell’associazione di settore, segnala come la novità è tutt’altro che simbolica: «È un passaggio decisivo: il Consiglio di Stato fotografa l’anomalia italiana e chiede alla CGUE se si possa davvero colpire solo le infiorescenze quando l’UE non distingue tra parti della pianta e il THC è minimo. Per le imprese e i negozi significa una prospettiva concreta di serenità legale e di tutela della filiera, nel rispetto delle regole europee». Cusani insiste anche sulla continuità fra il vecchio e il nuovo quadro normativo, che rende impossibile archiviare la questione come superata dalla riforma del 2025: «La corte chiarisce che l’interesse resta attuale: il divieto sulle infiorescenze è ancora scritto nella 242/2016 come modificata, dunque la questione UE va risolta e riguarderà anche il nuovo art. 18 del Dl sicurezza. Nel frattempo, i giudici nazionali hanno già gli strumenti per disapplicare le norme incompatibili con il TFUE».

L’ordinanza, insomma, non chiude ma apre una fase. Nel breve periodo, indica una via per ridurre l’incertezza giuridica che ha segnato la stagione della “cannabis light”, consentendo ai giudici di disinnescare le norme interne più chiaramente in contrasto con il diritto dell’Unione. Nel medio periodo, rimette al centro una domanda che l’Italia ha finora eluso: se la canapa industriale, da varietà certificate e a basso THC, debba essere trattata come un prodotto agricolo da regolamentare in termini di qualità, sicurezza e tracciabilità, oppure come l’ennesimo terreno per una guerra alle sostanze che finisce per colpire soprattutto agricoltori, imprese e consumatori. La risposta proveniente dal Lussemburgo potrebbe segnare il confine definitivo fra questi due modelli.

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