Ognuno di noi è un ex qualcosa

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In occasione del Festival Nuova Città 2025 – Abitare il confine, promosso dalla Fondazione Giovanni Michelucci di Firenze, si è parlato anche di carcere e di possibilità di inclusione per le persone detenute, un tema caro all’architetto Michelucci, progettista del Giardino degli Incontri del carcere di Sollicciano.

Accanto ai problemi posti dal permanere in una istituzione totale, non sono secondari quelli legati all’uscirne, liberandosi dal peso dello stigma. È una sorta di corollario del “buttare via la chiave” per i condannati, un ammonimento, cioè, che – pur uscendo a pena conclusa – saranno sempre in qualche modo “dentro”.

Quelli di noi che si occupano di psicologia, o di discipline giuridiche, formazione o promozione sociale lavorano per sostenere processi di cambiamento. Gli esiti possono essere diversi, ma, se l’intervento funziona, il cambiamento dovrebbe essere evidente anche alle comunità di riferimento. Sono processi che riguardano anche la detenzione, e dopo qualunque tipo di reati.

Quanto passa nella cultura diffusa degli effetti prodotti dal cambiamento?

L’intersezionalità tra le categorie che determinano disuguaglianze e i differenti livelli di potere in cui si traducono gioca un ruolo non indifferente sulla comunicazione degli effetti, rappresentati diversamente a seconda del ceto socioeconomico e culturale delle persone a cui si riferiscono. Pensiamo al caso di Cucchi, che soltanto adesso, e non sempre, viene definito ‘ragioniere’ mentre per anni è stato solo un ‘tossico in carcere’. E pensiamo anche all’ala del passato che grava sugli anni Settanta-Ottanta, rappresentati – adesso più che mai – solo come anni di piombo, disconoscendo il decennio dei diritti, i cambiamenti epocali, lo statuto dei lavoratori, la legge 180, la legge sull’aborto e così via.

Condannati ad essere ex? “Ognuno di noi è un ex-qualcosa”, raccontava una giovane operatrice di un servizio per le dipendenze, “… io però sono tante cose, anche una ex sportiva, ma di questo a nessuno sembra importare nulla… sembra che gli siano sempre gli altri a scegliere quale ex dobbiamo essere”. Le sue lontane esperienze con le sostanze sembravano gravare comunque sulla sua professionalità. A volte sparivano ma altre volte tornavano, o come attestazioni di merito o, più frequentemente, come una sorta di peccato originale da redimere.

Ognuno di noi è un ex qualcosa. Ex-giovane, ex-lavoratore, ex-partner … Talvolta siamo noi stessi ad usare la definizione di ex, per ricordare qualcosa di importante del passato (sono una ex sportiva), ma è una nostra scelta.

Il problema è che l’essere ex diventa un marchio, una gabbia da cui è difficile uscire, anche se il nostro processo di cambiamento ha dato frutti importanti. E soprattutto, come come sottolineava l’operatrice, sono gli altri a decidere quale ex siamo, di solito con un intento denigratorio.

Se “il tossico/la tossica” sono figure emblematiche e ricorrenti, lo sono anche di più coloro che hanno avuto condanne per reati da anni di piombo, enfatizzati per mandare un messaggio securitario, che faccia da monito anche agli attivisti e perfino ai volontari della Global Sumud Flotilla.

Succede con una frequenza perfino ossessiva – adesso ovviamente peggiorata – che circostanze storiche vecchie di decenni, i soliti anni di piombo, vengano puntualmente riesumate quando l’ex, pur a pena pienamente scontata, si trova a svolgere una attività socialmente apprezzabile. Così si ribadisce l’eternità del reato, presupponendola un deterrente alle minacce per l’ordine costituito.

Ma se lo stigma della colpa è indistruttibile, allora diventa inutile lavorare sul carcere. E direi anche sulla salute mentale, e anche sulla convivenza civile, per la quale è imprescindibile il diritto di cambiare: nei comportamenti, nelle idee o nelle modalità di realizzarle.

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