La corrispondenza è un diritto anche al 41 bis
La Corte europea dei diritti umani (Cedu) con sentenza pubblicata il 10 luglio 2025, nel ricorso n. 64753/14, “Gullotti contro Italia”, ha riconosciuto la violazione dell’articolo 8 della Convenzione che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio, della corrispondenza, anche ai ristretti in regime di 41 bis. Il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia aveva rinnovato nei confronti di una persona ristretta in regime di 41 bis, per un periodo di tre mesi, il divieto di corrispondenza epistolare con persone diverse dai parenti ammessi alle visite, in ragione della pericolosità soggettiva del detenuto in quanto collocato in regime differenziato. Il ricorrente lamentava l’inosservanza dell’art. 8 della Cedu.
La sentenza richiamata riconosceva la violazione “poiché la contrazione del numero di persone con cui il detenuto può intrattenere una corrispondenza equivale a un’ulteriore limitazione del diritto del ricorrente” che rende necessaria “una motivazione individualizzata, o almeno una ragionevole spiegazione dei motivi per cui il controllo generale della corrispondenza, senza limitazioni per quanto riguarda i mittenti o i destinatari, è stato ritenuto insufficiente”.
La Cedu disegna una differenza tra la diuturna soggezione alla censura della corrispondenza delle persone in 41 bis – sostanzialmente legittimandola – perché ancorata alla presunzione di pericolosità soggettiva connaturata alla detenzione differenziata, e le ulteriori più pregnanti limitazioni del caso di specie per le quali richiede, invece, una adeguata giustificazione correlata ad un giudizio individualizzato.
Il ragionamento appare, però, ragionevole solo se rapportato a una corretta applicazione della carcerazione di rigore, ammissibile per un tempo limitato, ove sia concreto e attuale il pericolo che i capi di organizzazioni criminali perdurino nel comando trasmettendo all’esterno direttive di azioni delittuose. Questo lo scopo del 41 bis e la legittimazione in ragione della quale nel 1992 si ammise, in virtù di una riconosciuta emergenza sociale, una patente violazione dell’art. 27 co. III della Costituzione, stabilendo che alcuni detenuti potessero essere esclusi – seppur per il più breve tempo possibile – dalla funzione riabilitante e restitutoria di ogni pena, sottraendoli in tutto o in parte al trattamento rieducativo ordinario, alla tutela delle relazioni familiari e affettive, alle attività di formazione e lavoro, a quelle ricreative, all’esposizione alla luce e all’aria naturali, perfino alla salute.
La volontà del legislatore e la tenuta costituzionale del regime, però, sono state tradite dalla prassi di tenere i detenuti in 41 bis per anni e anni senza alcun requisito di attualità diverso dalla generica vitalità del fenomeno mafioso.
È proprio per tale ragione che la Corte di cassazione, con sentenza n. 14675/2024, ha accolto il ricorso di un detenuto da ben 22 anni in 41 bis che si doleva del rinnovo del provvedimento generico di censura della corrispondenza, e ha ritenuto inammissibile la automatica derivazione fra l’assoggettamento del condannato al 41 bis e la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo.
A fronte di una così lunga soggezione alla carcerazione privativa, ha spiegato la Cassazione, la compressione di un diritto fondamentale presidiato da riserva di legge rinforzata dalla garanzia giurisdizionale, deve essere specifica e individualizzata e non può affidarsi a un’operazione argomentativa che appare ellittica e tautologica.
Piccole ma significanti crepe che richiamano l’attenzione su un mondo, quello dei reclusi al 41 bis, sottratto ai principi costituzionali e convenzionali che governano la pena; esclusi, non in ragione della legge ma della sua distorta attuazione, da ogni progetto e speranza di reinserimento nella società.
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