Strage di operai nell’incidente ferroviario a Brandizzo, Revelli: “Il lavoro è indifeso”

Strage di operai nell’incidente ferroviario a Brandizzo, Revelli: “Il lavoro è indifeso”
Marco Revelli, sociologo, politologo ed ex docente dell’università del Piemonte orientale, non ha più parole per commentare e deprecare quelle che definisce “morti di lavoro” e non “sul lavoro”. “Perché – dice – troppo spesso conta più il prodotto che il produttore”. L’incidente ferroviario a Brandizzo (Torino) – costato la vita a cinque operai travolti da un treno mentre sostituivano alcuni binari – è solo l’ultimo episodio.

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Da inizio 2023 le vittime sono già 450. “Un’ecatombe ininterrotta”, dice Revelli, individuandone la diretta causa nell’ultima evoluzione del capitalismo. Solo le tragedie più gravi vincono l’indifferenza, alzando l’attenzione per qualche giorno. Ma poi nulla cambia. I politici “vivono su un altro pianeta”, mentre i sindacati “sono stati messi ai margini, o si sono appiattiti sulle posizioni di governo”. L’attuale sistema produttivo ha reso “ogni lavoratore solo di fronte al padrone. Il lavoro è più indifeso”.

Professor Revelli, ancora una volta una tragedia sul lavoro. 
Difficile commentare, si rischia di essere ripetitivi. La catena delle morti sul lavoro è ininterrotta. Quasi ogni giorno siamo costretti a registrarne almeno una, spesso due, a volte tre. Le tragedie più gravi, come quella di Brandizzo, squarciano il velo della disattenzione generale, polarizzando le emozioni. Ma dopo qualche tempo lo scandalo scema e la notizia passa dalle prime pagine dei quotidiani ai trafiletti, per poi sparire. Se andiamo ad analizzarne gli esiti giudiziari, la sensazione è che queste morti siano avvolte da una dimensione di impotenza. I responsabili, quando condannati, devono scontare pene lievi, quasi simboliche. È successo ai dirigenti della multinazionale dell’acciaio ThyssenKrupp, responsabile nel 2007 di un’altra grande tragedia, in cui sette operai furono uccisi da un’esplosione nello stabilimento di Torino. Così come a Stephan Schmidheiny, ultimo proprietario dell’Eternit, fabbrica che fino ai primi anni Novanta ha prodotto cemento-amianto, un materiale tossico che ha causato la morte di molte persone. Non sono casi isolati. È come se attribuissimo questi decessi a fenomeni naturali, quando invece sono diretta conseguenza di una ben identificabile organizzazione del lavoro e del modo in cui il lavoro è oggi considerato all’interno della nostra società. 

 “Analizzandone gli esiti giudiziari, la sensazione è che queste morti siano avvolte da una dimensione di impotenza. I responsabili, quando condannati, devono scontare pene lievi, quasi simboliche”

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Cioè?
Il primo articolo della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. I nostri padri costituenti consideravano il lavoro un elemento centrale della democrazia e non in senso astratto. Una centralità che, fino alla seconda metà del Novecento, ha consentito di ottenere importanti conquiste, non solo in termini di remunerazione e di condizioni lavorative, ma anche di status. C’è stato un tempo in cui si poteva dire con orgoglio di essere un operaio. Uno status che determinava la tua identità, dandoti voce nel dibattito pubblico. Oggi i lavoratori hanno perso autorevolezza, non sono più considerati protagonisti della vita collettiva e non godono di riconoscimento. Elemento decisivo nel definire personalità e autostima degli esseri umani. Il lavoro manuale ha subito un processo molto violento di marginalizzazione economica, sociale e culturale. I morti di Brandizzo erano lavoratori manuali, quelli che svolgono i compiti più faticosi e pericolosi ma meno retribuiti, e che riempiono le cronache con le loro morti di cui ci si dimentica in fretta. Protagonisti della società sono, invece, imprenditori, finanzieri e influencer. Di pari passo, il lavoro si è impoverito. Da più di 20 anni gli stipendi nel nostro Paese sono al palo. L’Italia è l’ultimo Stato dei paesi Ocse e l’unico in cui i salari non si sono adeguati in maniera proporzionale all’aumento dei prezzi. Abbiamo perso anche la dimensione di carriera, nel senso letterale del termine, che sta a indicare le tracce lasciate da un carro in movimento. Se il lavoro consiste di impieghi di breve durata, non correlati tra loro, cessa di essere il percorso su cui costruire la propria vita. È naturale che i giovani non ci vogliano investire. 

“Oggi i lavoratori hanno perso autorevolezza, non sono più considerati protagonisti della vita collettiva e non godono di riconoscimento. Protagonisti della società sono, invece, imprenditori, finanzieri e influencer. Di pari passo, il lavoro si è impoverito. Da più di 20 anni gli stipendi nel nostro Paese sono al palo”

Cosa ha determinato questa trasformazione?
Un cambio radicale nell’organizzazione del lavoro. La fine del modello fordista, altrimenti detto ford-terrorista, che ruotava intorno a grandi unità produttive: enormi fabbriche che impiegavano decine di migliaia di operai, al lavoro insieme nello stesso posto. A partire dagli anni Ottanta, il lavoro è diventato sempre più precario e parcellizato, perdendo di soggettività. Il sociologo Aldo Bonomi parla di una frantumazione del diamante del lavoro. Non c’è più una figura egemone che lo rappresenti, come era l’operaio di fabbrica negli anni Sessanta e Settanta. Il lavoro si è spezzettato in tante schegge, con ampi settori costretti a condizioni di tipo servile. Al penultimo anello della catena ci sono i lavoratori della logistica. All’ultimo chi è al servizio delle piattaforme, come i rider. Nei giorni scorsi uno di loro è stato fotografato mentre pedalava sotto un muro di pioggia torrenziale: un’immagine simbolo del maltrattamento del lavoro contemporaneo. 

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Sembra quasi che l’epoca fordista fosse migliore.
No, era feroce. Il lavoro non è mai stato un’attività dolce. Soprattutto se sotto padrone, è stato dolore e fatica, ma pure strumento di auto-realizzazione. Anche in epoca fordista i decessi erano quasi quotidiani. E, ufficialmente, alla Fiat non si moriva mai dentro la fabbrica. Quando succedeva un incidente mortale, la vittima veniva traportata fuori, in modo che il referto medico certificasse la morte in ambulanza. I corpi venivano deformati dalla fatica. Le strutture metalliche della catena di montaggio incorporavano a forza gli uomini e le donne dentro le macchine. Non c’è alcuna nostalgia per quel sistema di lavoro, che ha modellato e inquinato in modo irreversibile quello attuale, però aveva un vantaggio: favoriva l’azione collettiva. La fabbrica assemblava non solo le auto, ma anche gli uomini. Una volta rotta la paura verso la struttura di comando, metteva le proprie vittime in condizioni di organizzare la rivolta. L’autunno caldo si spiega così.

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E adesso?
L’attuale sistema produttivo è individualizzante e atomizzante. E il lavoro è più indifeso. Ogni lavoratore è solo di fronte al padrone, quando il padrone è visibile. Chi è al servizio delle piattaforme non può nemmeno andare in ufficio e sbattere i pugni sul tavolo.

“L’attuale sistema produttivo è individualizzante e atomizzante. E il lavoro è più indifeso. Ogni lavoratore è solo di fronte al padrone, quando il padrone è visibile”

In questo contesto, che spazio hanno i sindacati?
La dimensione sindacale è cambiata in modo enorme e a questo cambiamento non è corrisposta una presa di coscienza e un’auto-riflessione. Il rischio è di non riconoscere i limiti dell’azione sindacale, pretendendo di avere le stesse capacità di un tempo, o di appiattirsi sulle posizioni di governo. Come se i referenti dei sindacati non fossero i lavoratori ma i governanti, e fosse possibile ottenere qualche miglioramento solo ottenendo il favore dei politici. Le responsabilità non sono soggettive, cambiando gli uomini non si risolve il problema, che ancora una volta è del paradigma socio-produttivo. Questa impressionante frammentazione del lavoro priva i lavoratori del potere contrattuale e della capacità di auto-organizzarsi, un contesto in cui anche i sindacati diventano marginali. Forse avrebbero avuto un’alternativa: ripercorrere la strada della loro nascita. Agli inizi del Novecento l’unità organizzativa sindacale erano le camere del lavoro: organi territoriali, che rappresentavano l’insieme dei lavoratori sul territorio, non singoli settori industriali. Strada che, a mio avviso, non è stata sfruttata per mancanza di cultura storica e di fantasia. 

Vita da rider. L’inchiesta

Nel suo comunicato stampa di cordoglio alle famiglie delle vittime, Rete ferroviaria italiana ha specificato che la ditta era esterna. Che ne pensa?
È un punto centrale. Esternalizzazione e appalti sono pericolosi perché permettono di ridurre al minimo la responsabilità, che viene così distribuita tra una miriade di soggetti, e rendono più difficile la comunicazione interna. Al tempo stesso, i ritmi diventano insostenibili: i contratti a termine sono un cappio al collo che obbliga a rispettare determinati tempi. Che a fare ricorso a esternalizzazioni e appalti sia una società pubblica è un degrado nel degrado. Ma risponde alla logica egemone: massimizzare l’efficienza, aumentando i profitti e riducendo i costi, a discapito dei diritti e della sicurezza. Una logica a cui il pubblico si adegua, se non persino guida. 

Nel processo di precarizzazione del lavoro, quali responsabilità ha la politica?
I politici vivono su un altro pianeta e da lì ci bombardano. Sono del tutto estranei ai problemi e non hanno terminali all’interno della società che possano creare un trasferimento di competenze. La regressione intellettuale, cognitiva ed etica è trasversale. Sulla sicurezza sul lavoro non è stato fatto quasi nulla. Neanche un ampliamento significativo del numero di ispettori del lavoro. 

“Che a fare ricorso a esternalizzazioni e appalti sia una società pubblica è un degrado nel degrado. Ma risponde alla logica egemone: massimizzare l’efficienza, aumentando i profitti e riducendo i costi, a discapito dei diritti e della sicurezza”

Al centro del dibattito di questi mesi c’è il salario minimo. Cosa ne pensa dei 9 euro lordi proposti?
Il minimo sindacale. Immaginare che una quota di lavoratori riceva un compenso al di sotto di questa soglia significa immaginare una nazione regredita a una condizione premoderna. Rifiutare un provvedimento del genere è inconcepibile. Inquietante che a schierarsi contro siano forze politiche auto-definitesi patriote. Nei fatti, stanno lavorando contro la dignità del loro Paese.

Come giudica, invece, lo stop della premier Giorgia Meloni al reddito di cittadinanza? 
Sadismo sociale, che riflette un disprezzo delle fragilità. La povertà è ridotta a colpa, anche nel linguaggio: i percettori del reddito di cittadinanza sono stati descritti come approfittatori e scansafatiche. Quando definisco fascisti alcuni esponenti del governo non uso una categoria ideologica. Ma storica, molto precisa.

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