“Senza la base, scordatevi le altezze”. Le comunità come antidoto alla cultura mafiosa e clientelare nei territori
Da queste energie, dall’intelligenza collettiva sorta dal sacrificio di ognuno di loro; dalle lotte e dai tentativi collettivi e individuali è scritta nella pagine della nostra storia contemporanea la più grande storia di resistenza civile alle forme di potere criminale; l’antimafia sociale e istituzionale dunque come una straordinaria esperienza internazionale di resistenza a quei poteri deviati, informali e illegali che hanno deturpato, eroso e inaridito le democrazie nel mondo. E oggi lo fanno con maggiore forza, presenza e infiltrazione.
Il contrasto ha funzionato, ma va rilanciato
“Il ripiegamento dei sistemi mafiosi di fronte all’attacco dello Stato non ha prodotto la sperata graduale dissoluzione del fenomeno, ma una reazione criminale basata sulla capacità di adattamento”
Il tratto esemplare del contrasto a mafie e corruzione non possiamo misurarlo solo nei termini della forza di mobilitazione, della denuncia, della messa a disposizione dei corpi contro il potere insistente e violento delle mafie, ma anche in termini di qualità dell’analisi, della proposta, dell’invenzione politica e giudiziaria nel contrasto a questi fenomeni. Un modello che sul piano globale ancora oggi è studiato e preso a modello.
Del resto le mafie hanno subito un durissimo colpo dall’azione repressiva e dall’iniziativa politica e legislativa. Non si può dubitare dell’efficacia dell’impegno generato in questi decenni. Tuttavia il ripiegamento dei sistemi mafiosi di fronte all’attacco dello Stato non ha prodotto la sperata graduale dissoluzione del fenomeno, ma una reazione criminale basata sulla capacità di adattamento, nel linguaggio, nelle relazioni e nella presenza territoriale. Il loro mutare, e dunque il loro perdurare, è di fronte ai nostri occhi e tuttavia quest’analisi della realtà è tutt’altro che un resoconto di una sconfitta. Ci consegna piuttosto la traccia di un rilancio necessario sul piano dell’azione civile, culturale, sociale e politica e a cogliere i limiti di intervento, specialmente nei contesti a forte povertà e consenso mafioso.
Se la scuola esclude, le mafie avanzano
Perciò se il diritto penale e amministrativo, le inchieste, le condanne, i sequestri e le confische sono state la colonna portante di un’azione di contrasto, bisogna guardare dove la dimensione non è arrivata e dove non può naturalmente arrivare. Del resto le mafie non sono solo un fenomeno criminale, ma il sintomo profondo di un’assenza di comunità consapevole, il risultato di una frammentazione sistemica, di vuoti politici e istituzionali dove le comunità non sono né oggetto di investimento pubblico, né soggetti attivi nella trasformazione dei propri territori.
I vuoti sono rappresentati da parole diventate stigma: le periferie, la sua gente e i loro giovani innanzitutto. L’assenza di politiche attive e integrate nei luoghi ai margini della distribuzione di ricchezza e potere democratico nelle nostre città sono i luoghi principali della riproduzione mafiosa e del loro consenso violento e clientelare. Rintracciare nuove politiche di comunità e per le comunità vuol dire sforzarsi di posizionare l’azione e lo sguardo politico in basso, rendendo la lotta alle mafie una battaglia per la liberazione dalla povertà, dal degrado, dall’emarginazione urbana e sociale.
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Il vuoto e chi lo riempie
Occorre sia dal punto di vista generale una politica capace di rimuovere le diseguaglianze sostanziali, ma anche politiche generative, innovative, educative
Mafie e corruzione prosperano in uno spazio molto preciso: dove le comunità sono frammentate, dove i legami sociali sono deboli, dove le persone hanno perso la speranza di poter cambiare le cose con le altre persone. Un adolescente che cresce in un quartiere popolare trova di fronte a sé un deserto di relazioni (siano esse familiari o sociali), di infrastrutture (siano esse culturali o di mobilità urbana) e di possibilità (siano esse lavorative o formative). Il sistema di welfare in questi luoghi è stato perennemente e gradualmente svuotato di ogni possibilità generativa, nonché inaridito dal taglio verticale di risorse dello Stato. Gli spazi pubblici sono spesso lasciati al degrado senza una visione politica e condivisa di cura del bene comune.
Nel vuoto di questa assenza di comunità entra chi sa esattamente come riempirlo: i clan che intimidiscono e offrono un tramite illegale per garantire una soglia di sopravvivenza. Allo stesso modo, la corruzione prende forma dove i legami sono deboli e dipendenti da diffusi sistemi clientelari. In territori dove la mobilità urbana non permette di arrivare al centro delle città, dove i servizi essenziali funzionano a seconda di dove vivi, il welfare si trasforma in una concessione determinata da poteri informali che svuotano la dimensione pubblica di credibilità e autorevolezza.
La sfida contemporanea per liberare i territori da mafiosi e corrotti ha bisogno di ridefinire i propri meridiani e paralleli: consapevoli che va chiuso il cerchio dell’azione repressiva, costruendo una filiera per cui prima e dopo le indagini e gli arresti siano presenti istituti e infrastrutture sociali e culturali. Dunque occorre sia dal punto di vista generale una politica capace di rimuovere le diseguaglianze sostanziali (il lavoro dignitoso, i servizi pubblici accessibili, pubblici e gratuiti), ma anche politiche generative, innovative, educative capaci di ricostruire nessi, relazioni, possibilità in territori atomizzati e degradati.
Quale sguardo per politiche pubbliche contro mafiosi e corrotti?
La mole di sequestri e di confische metterebbe oggi nelle condizioni intere aree del paese di programmare, con le giuste risorse, politiche attive sul lavoro o di welfare generativo in grado di rimettere in moto contesti impoveriti dall’economia estrattiva mafiosa
Costruire alternative culturali, economiche e sociali al dominio della criminalità organizzata chiede necessariamente uno sguardo rivolto alle comunità come protagoniste del cambiamento. Riposizionare dunque le politiche pubbliche in quest’ottica vuol dire centrare le strategie e le risorse nel segno di costruzioni di modelli di sviluppo locale fondate sulla giustizia sociale come spiegato dall’articolo 3, comma 2 della nostra Costituzione: “Rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della persona”; ovvero costruire le condizioni e le infrastrutture per cui ci sia un terreno fertile dove realizzarsi come cittadine e cittadini.
I beni confiscati, un volano sociale
La sfida del riuso sociale dei beni confiscati alle mafie per creare occupazione, imprese sociali, housing e agricoltura sostenibile, un nuovo welfare, resta ancora la sfida più interessante e sempre più consistente. La mole di sequestri e di confische metterebbe oggi nelle condizioni intere aree del paese di programmare, con le giuste risorse, politiche attive sul lavoro o di welfare generativo in grado di rimettere in moto contesti impoveriti dall’economia estrattiva mafiosa. Guardare a politiche di programmazione di investimenti e di rafforzamento delle esperienze e delle reti dei soggetti gestori vuol dire mettere in moto un meccanismo virtuoso di economia sociale, capace di diventare non un elemento “testimoniale”, ma un pezzo consistente del nostro modello di sviluppo, in particolare nel Mezzogiorno.
L’intensificarsi delle pratiche di riuso sociale ha portato a sviluppare di modelli innovativi in cui il tema della sostenibilità ha intrecciato quello del coinvolgimento delle comunità. Come nel caso dei beni confiscati gestiti da X Farm in Puglia o come le esperienze di partecipazione degli orti sociali del Fondo Nappo e della Masseria Ferraioli. I beni si sono rivelati anche potenti motori di welfare: appartamenti che hanno risposto alle esigenze di accoglienza diffusa di rifugiati o di donne vittime di violenza; ville riutilizzate e restituite alla cittadinanza come luoghi di innovazione e progettazione sociale; esperienze solide di agricoltura sociale che hanno fatto della propria stella popolare l’inclusione sociale e lavorativa di ex detenuti, ex tossicodipendenti o di persone in condizione di sofferenza psichica.
Su queste tipologie e modelli andrebbero tarate politiche di sviluppo e finanziamenti perché sono la dimostrazione reale che è possibile riconvertire i territori nel segno di un’economia sociale che non è più solo semplice testimonianza.
Beni confiscati, servono trasparenza e cooperazione
La lotta all’azzardo patologico
Al tempo stesso la sfida integrata della prevenzione è oggi una frontiera irrinunciabile. Il ritorno delle droghe vecchie e nuove, l’aumento delle forme di ludopatia, l’esplodere della violenza giovanile esigono politiche radicate e continuative nel tempo: ponendo fine al gioco d’azzardo, investendo in un lavoro di prevenzione e di servizi di bassa soglia sulle dipendenze, mettendo al centro al funzione educativa come una pratica di comunità fondata sulla nonviolenza e l’innovazione sociale.
Il percorso partecipato fatto in Piemonte sulla legge di iniziativa regionale rappresenta una delle punte più alte di rete e di proposta di contrasto a un fenomeno sempre più controllato dal riciclaggio mafioso di cui vittima sono le persone emarginate e fragili.
In Piemonte c’è chi contesta la legge anti-ludopatia
La sfida educativa ai margini
L’educazione di comunità racconta e valorizza il lavoro cooperativo, innovativo, di rigenerazione che centinaia di piccole e medie realtà educative svolgono nei contesti più marginali del Paese salvando vite, curando ferite, progettando possibilità tra le ragazze e i ragazzi. Modelli di prendersi carico delle vite, dei desideri e delle speranze, coltivandole e provando a costruire tempi e spazi di possibilità.
Libera nei territori e nei luoghi più ai margini delle grandi città modello di rigenerazione basate sulla memoria delle vittime innocenti. Come il caso del centro polifunzionale Ciro Colonna che è diventato nel tempo un modello educativo di reti che con diverse competenze che costruiscono progetti di presa in carico dei ragazzi del lotto O e del lotto G di Ponticelli, periferia est di Napoli dove proprio Ciro ha perso la vita. Così come il lavoro fatto a Centocelle a Roma, in Barriera a Milano, a Ballarò a Palermo. La rigenerazione dei quartieri attraverso l’educazione, il mutualismo, l’innovazione sociale si è dimostrata in questi anni il principale vettore di trasformazione e di tentativo concreto di liberazione culturale da alcuni meccanismi violenti e prevaricatori.
A Ponticelli la camorra uccide, lo Stato latita e i cittadini resistono
Una strategia nazionale di investimenti
Definire i cardini di modelli innovativi di welfare vuol dire superare la vecchia idea di assistenza e avere un’idea chiara di come l’inclusione socio-lavorativa, le politiche di integrazione e contrasto al caporalato, le infrastrutture educative, la medicina di comunità rappresentano condizioni di benessere diffuso e di liberazione da sistemi di poteri
Costruire una grande strategia nazionale, che investa su questi modelli attraverso la programmazione condivisa delle risorse, vuol dire scommettere nella prevenzione e nella rigenerazione dei contesti degradati e inariditi dall’abbandono dello Stato. Scuola e servizi educativi al centro della rigenerazione, fondati su partecipazione, nonviolenza e cura di genere. Asili gratuiti, educativa di strada, patti educativi comunitari prevengono reclutamento criminale e costruiscono identità alternative.
Pensare alla liberazione dei territori dal giogo mafioso vuol dire consentire il reinsediamento degli istituti di welfare nei territori dove le politiche sociali si sono eclissate. La corruzione e la clientela sono le regole di accesso ai servizi in larghe porzioni di territorio del nostro paese, vittima tanto degli interessi criminali dei clan, tanto dei processi di privatizzazione dei servizi pubblici. Definire i cardini di modelli innovativi di welfare vuol dire superare la vecchia idea di assistenza e avere un’idea chiara di come l’inclusione socio-lavorativa, le politiche di integrazione e contrasto al caporalato, le infrastrutture educative, la medicina di comunità rappresentano condizioni di benessere diffuso e di liberazione da sistemi di poteri che inaridiscono il tessuto democratico delle comunità.
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Quando questi processi di innovazione sociale sono integrati con le politiche pubbliche – quando cioè lo Stato non solo li consente ma li supporta, li finanzia, li legittima, li raccorda con educazione, welfare, rigenerazione urbana, trasparenza amministrativa –, allora si sperimenta una reale integrazione di politiche pubbliche per rigenerare i contesti territoriali.
Lo Stato, facendosi abilitatore di processi, inscrive la propria funzione attraverso istituti di partecipazione pubblica. La co-programmazione in questo senso diventa un ottimo strumento di design pubblico di interventi sociali dove le comunità diventano soggetti attivi, attraverso le organizzazioni sociali, per immaginare gli interventi sociali e culturali di cui un territorio abbisogna. Mettere in fila questo principio vuol dire dall’altra parte rafforzare gli standard di qualità, il monitoraggio costante degli impatti sociali e la sostenibilità nel tempo delle azioni. La comunità così decide, sperimenta, innova.
Un territorio dove la trasparenza amministrativa è praticata non solo attraverso portali online, ma attraverso forme di partecipazione strutturata dove la comunità conosce le decisioni pubbliche, le discute, le monitora insieme, è un territorio dove la corruzione non trova spazi. Perché la comunità si riappropria del potere pubblico, non più come dimensione verticale, in attesa della messianica redistribuzione di ricchezze, ma come dimensione partecipata e multidimensionale in cui le persone possono giocare e co-costruire il cambiamento.
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La comunità come spazio del possibile
Le esperienze di mutualismo rappresentano un antidoto direttamente alternativo alla cultura mafiosa nei territori: condividere bisogni e studiare insieme una risposta collettiva bilanciata. E queste pratiche, allo stesso tempo, sono strumenti di rigenerazione e barriere strutturali contro la criminalità organizzata
Immaginare politiche basate sull’idea di costruzione di nuove relazioni civili nei territori vuol dire rovesciare lo sguardo e la direzione degli interventi sociali nei territori: pensare alla comunità come soggetti attivi nella trasformazione dei propri territori.
Questo significa trasformare le istituzioni come abilitatori di processi di auto-organizzazione collettiva, capace di costruire meccanismi di innovazione sociale, di generazione di modelli di sviluppo locale e di servizi di comunità che rovesciano la condizione di marginalità, trasformandole in possibilità di riscatto. I processi di innovazione sociale, spesso nati dal terzo settore, dalle associazioni, dai movimenti civici, sono una chiave interpretative di questa possibilità. Le esperienze di mutualismo in questo senso rappresentano un antidoto direttamente alternativo alla cultura mafiosa nei territori: condividere bisogni e studiare insieme una risposta collettiva bilanciata. E queste pratiche, allo stesso tempo, sono strumenti di rigenerazione e barriere strutturali contro la criminalità organizzata. Così la comunità impara a conoscere sé stessa: scopre chi ha competenze, chi ha risorse, chi ha bisogni.
Veri processi di rigenerazione della comunità dove il valore non è misurato in denaro ma in reciprocità, dove ogni persona scopre di avere qualcosa di prezioso da offrire, dove i legami intergenerazionali si ricreano. Gli spazi condivisi – case di comunità, orti sociali, laboratori, spazi culturali e beni confiscati alle mafie – non sono infrastrutture neutre. Sono presidi di democrazia partecipativa, luoghi dove le persone prendono decisioni insieme. In questi spazi la logica della violenza non attecchisce perché c’è una logica alternativa già praticata: la logica della cooperazione, della costruzione collettiva, della nonviolenza.
Occorre perciò una visione di lungo periodo. Si tratta di supportare processi lenti di rigenerazione comunitaria dove gli impatti sono incrementali, dove le comunità imparano a determinarsi e a pensare se stesse e alle loro possibilità di sviluppo economico, sociale e culturale. La politica contemporanea deve avere il coraggio di ripensare completamente il rapporto tra istituzioni pubbliche e le comunità, investendo nel potere generativo e rigenerativo dei contesti attraverso gli innesti di infrastrutture sociali e culturali capaci di radicarsi e di determinare una elevazione collettiva fondata sulla consapevolezza che il cambiamento si determina attraverso la relazione con gli altri.
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