Qatar 2022, lavoratori e ambiente. Il lato oscuro dei Mondiali di calcio

Qatar 2022, lavoratori e ambiente. Il lato oscuro dei Mondiali di calcio
È tutto pronto per il calcio d’inizio del Mondiali di calcio che si terranno in Qatar dal 20 novembre al 18 dicembre: sette stadi nuovi di zecca, tram e metro di ultima generazione, un nuovo aeroporto, intere città e quartieri residenziali sorti dove fino a qualche anno non c’era che deserto. L’investimento per l’Emirato, guidato dal 2013 da Tamim bin Hamad al-Thani, è stato enorme: 229 miliardi di dollari, 15 volte quanto speso dalla Russia per accogliere l’edizione del 2018, prima d’ora la più costosa di sempre. Al bilancio c’è però da aggiungere un’altra voce di spesa, impossibile da quantificare: il costo umano e ambientale di un evento realizzato ai danni dei diritti dei lavoratori e senza alcun riguardo per l’impatto sull’ecosistema.

Si muore di lavoro, ma anche senza

Sfruttamento legale

Parlare dei diritti dei lavoratori in Qatar significa parlare di migrazioni. Non solo perché il 95 per cento della forza lavoro dell’emirato viene dall’estero, soprattutto da India, Bangladesh e Nepal, ma anche e soprattutto perché lo status di migranti li rende molto spesso vulnerabili e vittime di abusi. In Qatar, come in molti altri paesi del Medio Oriente, vige il sistema della kafala, o sponsorizzazione: chiunque voglia entrare nel paese per lavorare può farlo solo con l’accordo di un kafeel, uno “sponsor” locale, che nella maggior parte dei casi coincide con il datore di lavoro. Al kafeel lo Stato delega anche la gestione di tutti gli aspetti legali e burocratici legati alla permanenza del lavoratore e alla sua vita professionale. Si stabilisce così una relazione di forte dipendenza tra datori e dipendenti, che si trovano intrappolati in rapporti di lavoro talvolta segnati da abusi fisici, psicologici e sessuali.

Nel 2017, con il supporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), l’emirato ha intrapreso un importante percorso di riforma del mercato del lavoro per eliminare o quantomeno mitigare gli aspetti più problematici di questo sistema. Ora, almeno sulla carta, i lavoratori non hanno più bisogno del permesso del datore per lasciare il Qatar temporaneamente né per cambiare lavoro e beneficiano di un salario minimo mensile di 1000 riyal (circa 280 euro).

Il calcio in manette

Diritti calpestati

“Vediamo però come alcuni impresari praticano ritorsioni nei confronti di chi chiede il trasferimento, per esempio denunciando falsamente il lavoratore per assenza ingiustificata. Nel peggiore dei casi questo può portare alla cancellazione del suo permesso di soggiorno e quindi all’espulsione”Marco Minocri – Responsabile comunicazione dell’ufficio dell’Oil in Qatar

Nella pratica, però, i diritti di molti lavoratori vengono ancora calpestati. “Il problema più grosso oggi è il mancato pagamento degli stipendi – spiega a lavialibera Marco Minocri, responsabile della comunicazione dell’ufficio qatariota dell’Organizzazione internazionale del lavoro –. Questo è dovuto all’esistenza, soprattutto nel settore edilizio, di lunghe catene d’appalto: se l’impresa all’inizio della catena non paga quelle che stanno sotto, a farne le spese sono i lavoratori”. Questo tocca anche gli operai coinvolti direttamente nei preparativi per i Mondiali: a giugno 2020, Amnesty International ha rivelato in un rapporto che circa cento dipendenti della Qatar Meta Coats, impresa di costruzioni impegnata nella realizzazione dello stadio Al Bayt che ospiterà la partita inaugurale, sono rimasti senza stipendio per lunghissimi periodi, fino a sette mesi.

“Il problema numero due è il cambio lavoro – continua Minocri –. Dal 2020, grazie alla riforma del sistema della kafala, i dipendenti possono cambiare lavoro senza dover ottenere il previo assenso del datore. Purtroppo vediamo però come alcuni impresari praticano ritorsioni nei confronti di chi chiede il trasferimento, per esempio denunciando falsamente il lavoratore per assenza ingiustificata. Nel peggiore dei casi questo può portare alla cancellazione del suo permesso di soggiorno e quindi all’espulsione. E anche se il lavoratore riuscisse a dimostrare che le accuse sono false, i tempi della giustizia sono tali per cui alla fine del processo il posto per cui aveva chiesto il trasferimento potrebbe non essere più disponibile. Queste ritorsioni agiscono anche da deterrente nei confronti degli altri lavoratori che desidererebbero cambiare datore”.

Un altro fronte problematico è quello dei diritti collettivi dei lavoratori. La legge qatariota non consente la formazione di sindacati indipendenti e anche il diritto di sciopero, seppur riconosciuto sulla carta, nella pratica non è garantito come dovrebbe. Da quando il Qatar è stato designato dalla Fifa (Fédération internationale de Football Association, l’organismo mondiale del calcio) come paese ospitante nel 2010 si sono verificati diversi casi di arresto, detenzione ed espulsione di lavoratori colpevoli di aver scioperato contro la mancata retribuzione o condizioni di vita e di lavoro estremamente precarie. L’ultimo caso risale allo scorso agosto: stando all’ong Migrant Rights, 60 lavoratori del settore edile che avevano partecipato a uno sciopero a Doha sono stati arrestati dalle autorità qatariote, che ne hanno poi “facilitato il rimpatrio volontario” verso il paese d’origine.

Il giallo dei morti sul lavoro

Infine, la questione degli incidenti sul lavoro, su cui la trasparenza è ancora carente. Si è molto parlato degli oltre 6.500 lavoratori migranti morti dal 2010, secondo il The Guardian, nella realizzazione di infrastrutture legate ai Mondiali. In realtà, come spiega Marco Minocri, questa cifra comprende i decessi di tutti i cittadini di India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka verificatisi in Qatar, inclusi turisti, persone inattive o lavoratori morti per cause non legate all’attività professionale. Dati più accurati dell’Oil mostrano invece che almeno 50 persone hanno perso la vita nel 2020 per cause legate al lavoro, 506 sono rimaste gravemente ferite e 37mila hanno subito ferite lievi, ma non si tratta necessariamente di lavoratori impegnati nei cantieri dei Mondiali.

Lo scorso maggio, una coalizione di ong per la difesa dei diritti umani guidata da Amnesty international e Human rights watch ha lanciato la campagna #PayUpFIFA per chiedere alla federazione e al governo qatariota di risarcire economicamente le famiglie dei lavoratori morti e feriti. In un’intervista rilasciata all’Afp il 2 novembre, il ministro del lavoro Ali Ben Samikh Al-Marri ha rifiutato categoricamente, bollando la campagna come una “trovata pubblicitaria” montata per “screditare il Qatar”.

Non è un problema (solo) del Qatar

“I lavoratori indiani, bengalesi e nepalesi vengono qui perché l’Europa ha chiuso loro le porte. E in molti casi sono proprio grandi società occidentali a trarre profitto dal loro sfruttamento”Zahra Babar – Ricercatrice della Georgetown University in Qatar

Sfruttamento, mancata retribuzione, condizioni di vita precarie, scioperanti arrestati, morti sul lavoro: di fronte a questo quadro, decine di organizzazioni e migliaia di cittadini in tutto il mondo, soprattutto in Occidente, hanno espresso la propria indignazione, talvolta spingendosi a chiedere il boicottaggio dei Mondiali, indicati come l’emblema di un modello di sviluppo incompatibile con la tutela dei diritti e la crisi ambientale. Zahra Babar, ricercatrice alla Georgetown University in Qatar, istituto finanziato dalla fondazione dell’Emiro Padre Hamad bin Khalifa al-Thani, ha provato con i suoi studi a difendere la manifestazione e attenuare tali accuse. L’argomento non è nuovo a questo tipo di polemiche: ricorda la ricercatrice che lavoro a basso costo e scarse tutele nei confronti dei lavoratori sono alla base dell’intero sistema economico che ci porta il cibo in tavola, ci veste e ci fornisce smartphone ed elettrodomestici. Non solo in Qatar: “I problemi che ancora esistono in Qatar per quanto riguarda i diritti dei lavoratori sono il prodotto di un fallimento sistemico, in cui le imprese e gli Stati occidentali hanno una parte non trascurabile di responsabilità – spiega a lavialibera Babar –. I lavoratori indiani, bengalesi e nepalesi vengono qui perché l’Europa ha chiuso loro le porte. E in molti casi sono proprio grandi società occidentali a trarre profitto dal loro sfruttamento”. Concorda Minocri: “Alcune imprese, tra cui multinazionali occidentali che in Europa garantiscono ai propri dipendenti standard adeguati, qui oppongono resistenza al progetto di riforma. Anzi, spesso alcune imprese locali sono più esemplari di quelle straniere per quanto riguarda la tutela dei lavoratori”.

Babar ha anche dubbi sull’efficacia della campagna portata avanti dalle ong occidentali: “Non è stato fatto nessuno sforzo per coinvolgere gli attori locali, temo anche per la persistenza di pregiudizi verso il mondo arabo. Anzi, credo che questo abbia prodotto l’effetto contrario rispetto a quello desiderato: i cittadini qatarioti, sentendosi colpevolizzati e percependo la richiesta di maggiori tutele verso i lavoratori come imposta dall’alto e da fuori, oggi sono meno inclini a continuare sulla strada delle riforme”.

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L’altra faccia della medaglia: la questione ambientale

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Sull’altra faccia della medaglia, la questione ambientale. Con una differenza: se di fronte alle critiche per lo sfruttamento dei lavoratori gli organizzatori hanno cercato di mantenere il più possibile un basso profilo, sull’ambiente la strategia è stata opposta: “Sarà la prima coppa del mondo a impatto zero”, aveva annunciato trionfalmente l’Emirato a gennaio 2020. Impresa ardua, considerando che il Qatar è il primo paese al mondo per emissioni di CO2 pro capite, che il 99 per cento dell’elettricità consumata viene prodotta bruciando gas e petrolio e che più di un milione di persone raggiungeranno Doha in aereo per assistere alle partite, per di più in stadi costruiti ex novo ed interamente climatizzati. Impresa ardua, a cui l’Emirato ha trovato però una soluzione semplicissima: offsetting, compensazione. Il principio è semplice: per ogni tonnellata di gas a effetto serra emessa, si finanziano progetti che ne assorbono altrettante, come impianti eolici o fotovoltaici o campagne di riforestazione. Un’operazione che Gilles Dufrasne, policy lead dell’associazione no-profit belga Carbon market watch, non esita a definire “puro greenwashing, pubblicità ingannevole”.

In un rapporto pubblicato a maggio 2022, Carbon market watch ha smontato punto per punto la promessa di sostenibilità degli organizzatori. In primo luogo, Fifa e Qatar avrebbero sottostimato di molto le emissioni legate all’organizzazione dei Mondiali: 3.6 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, mentre l’associazione ne stima almeno cinque. La differenza deriva dal singolare metodo di calcolo adottato dagli organizzatori per contabilizzare le emissioni generate dalla costruzione degli stadi, come ha spiegato Dufrasne in una conferenza stampa: “Hanno spalmato le emissioni legate alla costruzione degli stadi sui sessanta anni di utilizzo previsti e ne è stata conteggiata solo la parte relativa ai settanta giorni di durata dei mondiali”. L’impatto effettivo sarebbe diecivolte quello stimato.

Nessuna compensazione ambientale

La seconda obiezione riguarda l’efficacia del sistema di offsetting. Per compensare i 3.6 milioni di tonnellate di CO2 equivalente che gli organizzatori stimano vengano emessi sarà necessario acquistare 3.6 milioni di crediti carbonio, ciascuno dei quali certifica l’assorbimento di una tonnellata di gas serra attraverso progetti sostenibili. “Esistono due sistemi di certificazione dei crediti carbonio riconosciuti a livello internazionale” continua Dufrasne “ma il Qatar ha deciso di inventarne uno ad hoc, con standard qualitativi e prezzi più bassi”. È stato creato così il Global Carbon Council, con il compito di certificare e mettere in vendita 1.8 milioni di crediti carbonio (dei restanti 1.8 non si ha notizia). A poco più di due settimane dal calcio d’inizio, solo sei progetti su 567 proposti hanno ottenuto l’approvazione per partecipare al piano di compensazione e solo 543mila crediti carbonio sono stati certificati.

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Al di là della lentezza, ci sono forti dubbi sull’efficacia del meccanismo: “Tanti dei progetti approvati sono già operativi e avrebbero continuato a funzionare anche senza i proventi derivati dalla vendita dei crediti carbonio – spiega Dufrasne –. Finanziarli non significa quindi assorbire più gas serra rispetto a prima. Così viene meno proprio il principio di compensazione”. Non si può neanche escludere che le società che gestiscono questi progetti decidano di investire i proventi della vendita dei crediti carbonio in altre iniziative decisamente meno sostenibili, per esempio legate allo sfruttamento di petrolio e gas, producendo così l’effetto contrario a quello desiderato.

Sarà mai possibile organizzare un Mondiale davvero a impatto zero? “Finché i grandi eventi sono organizzati così, il margine di miglioramento è minimo” afferma Dufrasne. “Bisogna ripensare completamente il modello. Si potrebbe per esempio immaginare un torneo “diffuso”, in cui le partite vengano disputate nei paesi delle squadre che si sfidano, evitando lo spostamento di milioni di tifosi”. Chi si aspetta un cambiamento in questa direzione dall’edizione successiva a quella del Qatar rimarrà probabilmente deluso: i Mondiali 2026, ospitati da Stati Uniti, Canada e Messico, saranno i primi in cui parteciperanno 48 squadre invece che 32, con il conseguente aumento dell’afflusso di tifosi e degli spostamenti tra una partita e l’altra.

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