Memorandum Italia-Libia, delle modifiche promesse non c’è traccia

Memorandum Italia-Libia, delle modifiche promesse non c’è traccia
Nel quarto anniversario della firma del memorandum Italia-Libia per la gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo – siglato nel 2017 dall’allora ministro degli Interni Marco Minniti e rinnovato senza modifiche per altri tre anni il 2 febbraio 2020 – Asgi, Emergency, Medici senza frontiere, Mediterranea, Oxfam e Sea-Watch chiedono al Parlamento l’immediata revoca dell’accordo e il ripristino delle attività di ricerca e soccorso nel Mediterrano centrale. 

Un anno fa il governo ha fatto scattare il rinnovo triennale dell’accordo senza modifiche annunciando qualche giorno dopo (il 7 febbraio), in una nota della Farnesina, una proposta di revisione “per garantire più estese tutele ai migranti” e “promuovere una gestione del fenomeno migratorio nel pieno rispetto dei principi della Convenzione di Ginevra”. Una convenzione, quella del 1951 sui rifugiati, che ad oggi la Libia non riconosce. Una proposta libica di modifica era stata annunciata il 26 giugno. Ma, come denunciano le organizzazioni, “nulla si è più saputo. Né tantomeno sono stati resi noti gli esiti della riunione del 2 luglio del Comitato interministeriale italo-libico, o se ci siano stati nuovi incontri, e neppure a quali eventuali esiti finali sia giunto il negoziato che avrebbe dovuto portare un deciso cambio di rotta nei contenuti dell’accordo”.

A parlare sono soprattutto i numeri di quattro anni di accordo: 785 miloni di euro spesi dall’Italia per bloccare le partenze, duemila migranti almeno detenuti nei centri ufficiali e 50mila persone intercettate in mare e respinte in Libia, di cui 12mila nel solo 2020. Della spesa complessiva, più di 210 milioni di euro sarebbero stati spesi direttamente in Libia ma, secondo le organizzazioni, non avrebbero fatto altro che “contribuire a destabilizzare il Paese ulteriormente e spinto i trafficanti di persone a convertire il business del contrabbando e della tratta di esseri umani nell’industria della detenzione”. Anche per questo le organizzazioni firmatarie chiedono oggi al Parlamento di istituire una Commissione di inchiesta che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo. “Ad oggi in mare non è rimasto più nessuno – dice a lavialibera Luca Casarini, capomissione di Mediterranea –. La Astral di OpenArms e la SeaWatch3 stanno però cercando di ripartire”. 

Per le associazioni l’accordo è da abolire, non da modificare

“La revisione degli accordi Italia-Libia è ipocrita e serve solo a lavarsi la coscienza, l’accordo della vergogna va stracciato”, attacca Alessandra Sciurba, portavoce di Mediterranea Saving Humans. Di differente parere l’esecutivo. A novembre 2019 il ministro degli Esteri Luigi Di Maio aveva annunciato di “star lavorando per modificarlo in meglio, in particolare nella parte riguardante le condizioni dei centri di detenzione”, ma che “sospenderlo sarebbe dannoso”. Della stessa linea è il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. 

Secondo la bozza del testo di modifica, da un lato l’Italia “riafferma il supporto agli organismi libici per il soccorso in mare e nel deserto, in particolare alla guardia di frontiera e alla guardia costiera del ministero della Difesa”, dall’altro la Libia dovrà agevolare le attività dell’Onu sia nel soccorso in mare sia nei centri di detenzione che “si impegna a migliorare attraverso interventi di emergenza coordinati in ambito Onu”, il “rilascio dei soggetti più vulnerabili, come donne e bambini” nonché con la “chiusura dei centri che potrebbero essere coinvolti in iniziative militari”.

Il riferimento all’Onu riguarda soprattutto l’azione l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) in Libia. Contattata da lavialibera l’Unhcr ha risposto: “Unhcr non commenta la nota rilasciata dal Ministero degli Esteri italiano, trattandosi di una negoziazione bilaterale fra Italia e Libia e non conoscendone i contenuti”. Dal ministero che fa capo a Luigi Di Maio ribadiscono che “i testi rimarranno riservati fino a quando la negoziazione non sarà conclusa”.

Sara Prestianni, esperta di politiche internazionali di immigrazione che ha potuto visionare la bozza del documento, definisce la proposta un “maquillage” che non tiene conto né “del contesto” né delle “voci internazionali profondamente critiche al riguardo dell’accordo”. “La Libia è un Paese in guerra e stiamo assistendo a un’escalation sia del conflitto sia dell’insicurezza — prosegue Prestianni —. Un altro nodo che rimane irrisolto riguarda i centri di detenzione libici” dove i migranti vengono torturati, come raccontato da lavialibera.

Il testo del memorandum e i nodi principali

L’oggetto del Memorandum è il “contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani”, nonché il “rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica italiana”. Il testo originario è composto da otto articoli ed è stato sottoscritto il 2 febbraio 2017 dall’allora premier Paolo Gentiloni (Pd) e dal primo ministro del governo di riconciliazione nazionale libico Fayez al-Sarraj. L’accordo ha validità triennale e, almeno per il momento, il 2 febbraio 2020 è stato rinnovato senza modifiche per altri tre anni.

Con esso l’Italia “si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del Ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’Interno” (articolo 1). La critica mossa dalle associazioni umanitarie riguarda proprio il ruolo di quella che, non a caso, definiscono come la cosiddetta guardia costiera libica. I problemi principali sono due.

Primo. L’accordo è stato stipulato con il governo di Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni unite. Ma la Libia è un Paese in guerra, dunque instabile, e a comandare c’è anche il generale Khalifa Haftar. La Conferenza di Berlino di gennaio, in cui si è cercato di trovare una soluzione internazionale alla crisi del Paese, si è rivelata inefficace. Emblematiche le parole di Ghassan Salamè, inviato speciale dell’Onu in Libia: “La tregua regge solo di nome”. Una mappa dell’Ispi restituisce anche visivamente il quadro della situazione attuale: al-Sarraj controlla solo un terzo della costa libica.

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Come raccontato da lavialibera al momento ci sarebbero 11 centri di detenzione ufficiali in Libia (numero in costante mutamento), quasi tutti attorno a Tripoli. Non si hanno invece numeri su quelli gestiti dai trafficanti, collocati soprattutto nella Libia meridionale e quindi fuori dal controllo di al-Sarraj. Secondo l’Onu migranti e rifugiati “continuano a essere soggetti sistematicamente a detenzione arbitraria e tortura, sia in luoghi di detenzione ufficiali che non. Violenza sessuale, sequestri di persona per riscatto, estorsione, lavoro forzato e omicidi illegali sono diffusi. Tra i responsabili di queste violazioni ci sono ufficiali governativi, membri di gruppi armati, trafficanti e membri di gruppi criminali”. Per Pietro Bartolo, medico a Lampedusa eletto al Parlamento europeo nelle liste del Pd, questo significa che “in Libia non c’è un governo con cui fare accordi accettabili, che rispettino i diritti umani”.

Secondo. La cosiddetta guardia costiera libica annovera soggetti come Abd al-Rahman al-Milad, meglio noto come Bija. Secondo un report delle Nazioni unite datato giugno 2017, Bija è coinvolto “nell’affondamento di imbarcazioni migranti utilizzando armi da fuoco”. Per questo il 30 gennaio la Commissione europea ha confermato le sanzioni finanziarie già previste dal Consiglio Ue nei suoi confronti. Lo scorso 4 ottobre il giornalista di Avvenire Nello Scavo, che per questo si trova ora sotto protezione, ha denunciato la presenza di Bija l’11 maggio 2017 in Italia presso il Cara di Mineo (Sicilia) per un incontro con le autorità italiane.

I problemi non finiscono con la guardia costiera. Nel memorandum si parla anche di “adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza”, nonché della “formazione del personale libico” che vi lavora. Nella realtà i centri di accoglienza sono centri di detenzione (qui la fotogallery de lavialibera). In queste condizioni risulta impossibile anche solo pensare di poter rispettare l’articolo 5 dell’accordo secondo il quale il memorandum deve essere applicato “nel rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui diritti umani”.

Le critiche politiche e istituzionali

A criticare l’accordo non sono solo associazioni e ong. Il 31 gennaio 2020 Dunja Mijatovic, commissario dei Diritti umani del Consiglio Ue ha affermato: “L’Italia deve sospendere con urgenza le attività di cooperazione con la Guardia costiera libica almeno fino a quando questa non possa assicurare il rispetto dei diritti umani”.

Il 15 gennaio 2020 António Guterres, segretario generale dell’Onu, ha pubblicato un rapporto sulla Libia in cui nel paragrafo dedicato a migranti e rifugiati viene citato anche il memorandum con l’Italia. Guterres si dice preoccupato “riguardo il trasferimento di migranti intercettati in mare dalla Guardia costiera libica indietro nei centri di detenzione ufficiali e non”. Non vi sono accuse dirette all’Italia, ma l’accostamento tra la situazione dei migranti e il memorandum è evidente.

Il giorno del rinnovo dell’accordo i radicali capeggiati da Emma Bonino sono scesi in piazza per chiedere che il memorandum venga sospeso e portato in Parlamento. Secondo l’Asgi il memorandum viola, infatti, la Costituzione perché non è mai “stato sottoposto a preventiva legge di autorizzazione alla ratifica da parte del Parlamento”.

Aspre critiche arrivano anche da esponenti della stessa maggioranza di governo. “Il rispetto dei diritti umani viene evocato tanto per fare – ha commentato il deputato dem Matteo Orfini il giorno del rinnovo -. Continuamo a pagare per chiudere all’inferno chi non vogliamo veder arrivare in Europa”. L’accusa è rivolta proprio al Pd: “Una delle pagine più tristi della storia italiana, sicuramente la più triste e vergognosa di quella del mio partito”.

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