Ho conosciuto Alfredo Mantovano, giovane deputato della destra, preparato e non arrogante, nella XIII legislatura dal 1996 al 2001 in cui ero sottosegretario alla giustizia preparato e non arrogante; suo compagno di partito era l’onorevole Simeone che con Luigi Saraceni firmò una importante legge contro discriminazioni classiste ed evitare inutili carcerazioni in attesa di misure alternative alla detenzione. Altri tempi davvero.

Oggi Mantovano è l’esponente più agguerrito del governo Meloni e le incombenze della gestione del potere non gli impediscono di coltivare l’ossessione sulla droga e di sostenere le tesi del proibizionismo ideologico più manipolatorie e infondate.
Mantovano è stato il vero ispiratore della legge Fini-Giovanardi che costituì un aggravamento incredibile della legge già pesante, la Iervolino- Vassalli voluta da Bettino Craxi, fondata su un assunto integralista per cui «la droga è droga», senza differenza tra le sostanze, eliminando la distinzione tra droghe leggere e pesanti e prevedendo per la detenzione, la cessione gratuita e lo spaccio una pena da otto a venti anni di carcere. Si dovette aspettare la decisione della Corte costituzionale nel 2014 per vedere cancellato questo obbrobrio giuridico.
Oggi come responsabile del Dipartimento antidroga cavalca nuovamente la crociata salvifica che ha come nemico assoluto la canapa e come vittime i consumatori colpevoli di ricercare un piacere dissoluto e inaccettabile. Giovani da incarcerare per costringerli a pentirsi e a salvare l’anima accettando una chiusura in una comunità chiusa.

Dalle sbarre alle catene. Ieri è stato presentato il XV Libro Bianco elaborato dalla Società della Ragione, da Antigone, da Forum Droghe, dal Cnca e molte altre associazioni impegnate per la riforma, sugli effetti della legge antidroga sulla giustizia e sul carcere, ma Mantovano si è guardato bene dal rispondere ai dati inoppugnabili che testimoniano la causa del sovraffollamento carcerario: 20.515 detenuti, il 34,1%, sono in carcere per violazione dell’articolo 73 della legge antidroga e 17.406 detenuti, il 28,9%, sono classificati come tossicodipendenti. Numeri che dovrebbero fare rabbrividire e che spiegano la realtà di un carcere ridotto a discarica sociale.

Invece si balocca nel riproporre miti rancidi come la droga di passaggio e il terrorismo sul livello di Thc nei cannabinoidi per cui la cannabis sarebbe non più lo spinello di una volta (quando Mantovano faceva il magistrato) con il principio attivo dell‘1% ma ora sarebbe attestato al 29%.
Lasciamo stare l’aneddotica personale, ma è davvero truffaldina la mistificazione del dato della resina (hashish) con le infiorescenze, il classico fumo, che mantengono da anni il livello al 12-13%.

Va detto che la cannabis terapeutica prodotta dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze ha un livello di Thc vicino al 20%.
Se le conseguenze non fossero tragiche – infatti il governo ha aumento le pene, fino a cinque anni di carcere per i fatti di lieve entità e si appresta a penalizzare anche la cannabis light senza potere drogante – si potrebbe provare compassione per lo spirito da soldato giapponese di Mantovano. Non si rassegna alla sconfitta nel mondo, a cominciare proprio dagli Stati uniti che iniziarono la war on drugs, con la svolta in atto della legalizzazione della cannabis. Lo stigma morale si è concretizzato dal 1990 ad oggi in una persecuzione di massa contro i giovani, con un 1.400.000 segnalazioni ai prefetti per mero consumo e più di un milione per una canna subendo sanzioni amministrative gravi, come il ritiro della patente e del passaporto.

Ricordo che Alfredo Mantovano il 2 dicembre del 2003 scrisse una lettera al Corriere della Sera in cui tra l’altro sosteneva che «la libertà della droga è già stata sperimentata e ha fallito». Paolo Mieli replicava seccamente: «Tenderei ad escludere che in Italia sia mai stata sperimentata, come lei dice, non dico la libertà ma anche solo la legalità della droga. Sono anni che lo Stato insiste a proibire anche le sostanze leggere e i risultati sono quelli da lei descritti. Infine fa sorridere, mi creda, il tentativo di riversare la colpa di ogni calamità in questo campo su quel (peraltro disatteso) referendum del 1993».

Siamo sempre qui, sul terreno simbolico e sul confronto tra una concezione del diritto laico e la deriva “morale” della legge.
Mantovano dovrebbe accettare la sfida nel Paese. Le associazioni sono pronte al referendum per dire «basta al carcere» e chiedono al governo di rendere utilizzabile la piattaforma per la raccolta digitale delle firme che da due anni è bloccata. Se Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, fa cessare il boicottaggio della democrazia, avremo un’estate calda e l’anno prossimo una prova tra repressione e libertà.