La fine dei riti, la fine dell’uomo

di Riccardo Paccosi

Il mondo “sostenibile” che si sta materializzando sotto i nostri occhi, reca in sé la fine delle danze, la fine dei canti corali, la fine delle sale cinematografiche, la fine dei teatri, la fine dei concerti rock.
Ma anche la fine delle feste religiose, la fine delle sagre di paese, la fine del turismo di massa, la fine delle ritualità sportive.

E così, anche, esso reca in sé l’interdizione dei funerali in determinati luoghi e periodi, il crollo quantitativo dei battesimi, il calo esponenziale dei matrimoni, il diradarsi dei raduni famigliari nelle festività.

Qualunque elemento rituale, ludico o artistico-culturale che possa insomma svolgere funzione di collegamento tra il singolo e la collettività, cessa di esistere, le arti abdicano dal loro ruolo di celebrazione collettiva della pólis per adeguarsi, senza porre resistenza alcuna, a un destino di fruizione esclusivamente individuale e domestica.

Festa di San Nicola a Bari

Menzionando il rapporto fra arti e pólis, si ricorda come la nascita delle prime discenda da quella culminazione della sfera collettiva che sono i riti.
Sacrificale, stagionale, propiziatoria o apotropaica che sia, la dimensione rituale rappresenta da sempre – come argomentato da Durkheim, da Malinowski, da Frazer e da insomma ampia parte dell’antropologia – il principio originario e fondativo della comunità e del contratto sociale.
Ma non soltanto il rito realizza il riconoscersi di ogni singolo uomo nel rapporto con la propria collettività: esso realizza, altresì e specularmente, il riconoscersi della specie umana nel rapporto con l’universo.
L’esistenza finita e mortale dell’uomo, infatti, al cospetto della sostanza infinita della natura e del cosmo circostanti, si ritrova in quella che Ernesto De Martino definisce crisi di presenza. I riti rispondono dunque a tale crisi e la trasmutano in consapevolezza della relazione, generando così senso e sentimento di legame fra specie umana e cosmo.

Questa coscienza di un universo esteriore a sé e la celebrazione rituale e collettiva di tale consapevolezza, ebbene, caratterizzano la specie umana da molto prima della scoperta della ruota.
Da questo punto di vista, allora, possiamo affermare che la società del distanziamento permanente, annichilendo ogni forma rituale collettiva, stia alienando l’uomo dal senso e dal sentimento del proprio legame con gli altri uomini nonché del proprio legame con la natura e il cosmo circostanti.
In conseguenza di ciò, possiamo concludere che la società del distanziamento stia altresì alienando l’uomo da ciò che lo definisce come specie nonché da tutto ciò che sia inscrivibile entro la categoria di umanità.

Fonte: Riccardo Paccosi

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