“Ho subito discriminazioni. Oggi non posso restare indifferente”

“Ho subito discriminazioni. Oggi non posso restare indifferente”
“Sono nato in una famiglia del centro storico di Napoli, mia madre era dei Quartieri Spagnoli e mio padre di San Biagio dei Librai, ma all’età di sette anni con i miei genitori sono partito per Milano. Qui ho provato cosa vuol dire essere discriminato. Oggi non posso restare indifferente”. A parlare è Gennaro Della Volpe, in arte Raiz, come si legge sulla copertina del suo primo libro, Il Bacio di Brianna (Mondadori).

“A Milano ho provato cosa vuol dire essere discriminato. Erano i tempi in cui stava nascendo la Lega, che non era quella in giacca e cravatta di oggi”

Venti racconti in cui il cantante degli Almamegretta – band cult degli anni ’90 votata alla contaminazione – partendo dal proprio vissuto racconta le paure e le speranze di chi è costretto a lasciare la propria terra in cerca di un futuro migliore come fece il padre, all’inizio degli anni Settanta, quando con la famiglia partì per Milano dopo aver perso il lavoro. I personaggi di Raiz – napoletani, milanesi, israeliani e palestinesi – saltano da un racconto all’altro combattendo col proprio passato alla ricerca d’amore. Come Nanà che lascia la famiglia per inseguire la propria felicità o come Kuba, colonello dell’esercito israeliano, che sempre per amore non ammazza una spia palestinese.

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Raiz affronta il dramma della malattia, la tenerezza e la cattiveria dell’adolescenza, l’amicizia, l’amore e la complessità del conflitto israelo-palestinese provando a smascherare stereotipi e vecchie categorie ideologiche ormai inadeguate a interpretare il tempo presente. E poi c’è l’amore per la musica, nato col concerto di Bob Marley a San Siro, il 27 giugno del 1980, aperto da un giovane Pino Daniele. “Una grande emozione – continua Raiz – ed ex post la consapevolezza, o forse l’illusione, di avere assistito, proprio quella sera, a un evento che avrebbe caratterizzato il mio lavoro futuro”. Un concerto che cambiò la vita del piccolo Gennaro che, dieci anni dopo, diventato Raiz con gli Almamegretta fonderà reggae e melodia napoletana in un sound sospeso tra Bob Marley e Pino Daniele.

Chi è Brianna?
È stata uno dei miei primi amori da adolescente, una ragazzina americana che veniva in vacanza in Italia.

Si tratta di un libro autobiografico?
Un pochino sì, ma c’è tanta fiction.

Cosa ti ha spinto a scrivere questi racconti?
Anche quando scrivo canzoni scrivo storie: sono racchiuse però nello spazio di una canzone. In un momento storico in cui la musica ha dovuto tacere, le storie che sono venute a trovarmi domandavano più spazio e così gli ho dato la forma di racconti.

Cosa unisce queste venti storie? E a chi si rivolge questo libro?
Il pathos, il sentire profondamente. La mia storia è fondamentalmente una storia di sentimento. Immagino che chi ha apprezzato le mie canzoni apprezzerà anche queste storie impastate con gli stessi ingredienti.

A cosa e a chi pensavi mentre lo scrivevi?
In realtà ero talmente coinvolto dai racconti, una sorta di autore e contemporaneamente spettatore, da pensare solo ai personaggi di cui stavo descrivendo le vicende.

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Per la prima volta ti firmi col tuo vero nome.
Finalmente! Porto un nome lungo, impegnativo ed etnicamente molto caratterizzato. Per il palco ho sempre usato uno pseudonimo, mi piaceva il fatto che fosse una parola araba usata anche in Sicilia, per il cantante di un gruppo che si chiama Anima Migrante era perfetto. Ora che con un libro ho più spazio di una canzone per raccontare la complessità di avere più di una identità, ha addirittura più senso farlo con il mio nome.

Perché hai voluto nascondere un nome “etnicamente impegnativo”?
Più che nasconderlo, ho provato ad alleggerirlo. Quando abbiamo cominciato a fare musica, il nostro progetto mirava a rendere liquidi i confini tra culture. Forse chiamarsi Gennaro Della Volpe avrebbe definito troppo le cose e il nostro progetto ha sempre avuto un’ambizione cosmopolita. Portare Napoli nel mondo e riportarsi il mondo a casa.

Quali sono le identità di cui parli?
Più che tante identità, ne ho una sola molto composita. Sono napoletano e milanese, africano per la musica, ed ebreo spiritualmente. Potrei continuare.

Quanto ha influito l’essere emigrato a Milano sulla scelta dei temi che hai trattato prima con le tue canzoni e ora col tuo primo libro?
La chiave di volta del mio lavoro sta tutta nella mia esperienza giovanile di immigrato. L’empatia per chi lo è stato dopo di me e la spinta a scrivere, anche spesso in prima persona, di emigrazione e razzismo derivano da lì. Se vivi certe cose sulla tua pelle non puoi restare indifferente quando vedi altri soffrire quello che hai sofferto tu, anche se in misura differente.

Cosa hai vissuto?
La sensazione di sentirmi discriminato nel mio stesso Paese. Erano i tempi in cui stava nascendo la Lega, che non era quella in giacca e cravatta di oggi.

È questo, il rapporto problematico con le radici, il filo rosso tra i racconti?
Se la mia famiglia non fosse emigrata al Nord quando ero solo un bambino, probabilmente sarei stato legato unicamente alla mia città di nascita. Invece sono cresciuto in Lombardia, e di conseguenza con due case: una fisica al Nord, e una ideale al Sud. Milano mi ha dato la forma mentis ma paradossalmente il sentirmi in una sorta di diaspora ha anche rafforzato il mio legame culturale con Napoli.

Ti ricordi il giorno in cui sei partito?
I miei affrontarono la partenza e il distacco da Napoli come una tragedia. Partimmo in treno, mettendo la 127 rossa amaranto sul vagone merci a Roma Tiburtina. Arrivati nel paese tra Milano e Bergamo dove siamo cresciuti, io e mia sorella ci adattammo immediatamente alla vita locale, al quartiere, alla scuola.

Con gli Almamegretta siete stati i primi a parlare del tema dell’immigrazione in musica, come credi sia cambiata la percezione dell’immigrato, in Italia, in questi trent’anni?
È peggiorata a causa ovviamente dei numeri – 30 anni fa erano pochi e quasi non percettibili a livello sociale – e dei sovranisti che ne hanno fatto uno spauracchio per parlare agli istinti più bassi del paese. Purtroppo certi temi da noi affrontati trent’anni fa sono ancora dolorosamente attuali.

Ho sposato una donna italo-israeliana e vissuto per anni in Israele. Doveroso togliere la parola alle armi 

Come ti spieghi il fatto che gli immigrati di ieri spesso sono i sovranisti di oggi?
Chi ha subito il razzismo in genere diventa uno che ne combatte ogni forma. Può però anche succedere, purtroppo, che diventi uno che non vede l’ora di poter essere razzista con qualcun altro.

Nel libro ragazzi palestinesi e israeliani, lontani dal conflitto, cercano di dimenticarsi rancore e odio, sentimenti che ricompariranno come un’ombra proprio quando sembra arrivare il sole.
Ho sposato una donna italo-israeliana e ho vissuto per anni in Israele. La percezione che il conflitto potrebbe essere – se non risolto – almeno mitigato proprio partendo dalle esperienze comuni è chiaro a tutti quelli che, da entrambe le parti, vorrebbero vedere i propri figli crescere con una prospettiva di pace. Le cose non sono semplici però, oltre alle difficoltà oggettive c’è stato un uso politico dei contendenti da parte delle superpotenze. La cosa ha fatto stratificare un manto di pregiudizi e falsità molto difficile da smantellare. Naturalmente la speranza è l’ultima a morire e vale sempre la pena agire nella direzione di coesistenza e convivenza.

Cosa pensi di quel che sta succedendo in questo momento in Israele?
È una questione complessa che non può essere liquidata con due parole. Più che pensare, sento molto la sofferenza per una terra dove ho trovato famiglia e dove ho vissuto diversi anni. È doveroso togliere la parola alle armi e restituirla alla diplomazia per ricomporre, con giusta soddisfazione di tutti, un conflitto che si trascina da troppi anni.

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