Contro la nostalgia dei manicomi

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«Compagni patetici che appena mormorate, andate a fiaccola spenta e restituite i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza.»
Nella Giornata internazionale della Salute mentale, il 10 ottobre, tornano in mente questi versi di René Char con cui Michel Foucault chiude la Prefazione a “Storia della follia nell’età classica”: un inno alla libertà e al diritto di sviluppare la propria “legittima stranezza”. Parole che sembrano risuonare in armonia con quel compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della personalità, sancito dal secondo comma della nostra Carta costituzionale.
Oggi viviamo in un momento in cui si sentono spirare forti venti di restaurazione, una spinta politica al ritorno indietro — sia rispetto alla chiusura dei manicomi civili, realizzata con la legge Basaglia quasi cinquant’anni fa, sia rispetto a quella più recente degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), avviata nel 2012 e conclusa nel 2017 con l’uscita dell’ultima persona internata (sic!) dall’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto.
Franco Corleone la chiama “nostalgia manicomiale”: l’idea che la risposta alla sofferenza psichica sia la reclusione, la contenzione, il ritorno a istituzioni chiuse, anche se più piccole e diffuse.
E, in effetti, sono numerosi i segnali in questo senso. Basti pensare alla delibera sulle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) del CSM (documento del 12 novembre 2024, approvato all’unanimità il 22 gennaio 2025), che propone l’incremento dei posti in REMS, la creazione di un doppio circuito di REMS — per pazienti stabilizzati e per pazienti con alta pericolosità — e ripropone una nozione che speravamo di non dover mai più leggere o sentire: quella delle persone “inemendabili”.
Oppure il ddl Zaffini (S. 1179), in corso di esame in commissione al Senato: un testo che riporta al centro la pericolosità della persona con sofferenza mentale, che prevede la creazione di nuove strutture residenziali — “manicomietti”, come sono stati giustamente definiti —, estende la durata massima del TSO e prevede la codificazione della contenzione.
O ancora, il Piano d’azione sulla salute mentale, che non prevede investimenti nei servizi, amplifica la componente biomedica — nonostante alcuni richiami di principio non tradotti in impegni concreti — e pone grande attenzione alla dimensione securitaria, dando nuova linfa vitale allo stigma sul folle.
“In direzione ostinata e contraria” ai venti neo-manicomiali ha scelto di viaggiare La Società della Ragione con la ricerca, da poco conclusa, “Salute mentale in carcere dopo gli OPG”, curata da Katia Poneti e Riccardo Girolimetto e realizzata grazie all’Otto per Mille della Chiesa Valdese.
L’associazione ha deciso di “abitare i confini”, per utilizzare la stessa espressione balducciana che dà il titolo alla X edizione del Festival dell’Arte Irregolare e dell’Outsider Art, attualmente in corso a San Salvi, a Firenze. Il confine che l’associazione ha scelto di abitare è quello del carcere, con l’obiettivo di analizzare i cambiamenti nella gestione della salute mentale in quell’istituzione dopo la riforma che ha condotto alla chiusura degli OPG — luoghi che rappresentavano una sorta di valvola di sfogo per il carcere — interrogandosi su come vengono curate le persone, quali siano le risorse e quali i diritti garantiti.
La ricerca si è svolta nelle realtà carcerarie di Prato, Udine e Rebibbia femminile. Dai risultati emergono numerose criticità strutturali e culturali: difficoltà di coordinamento tra amministrazione penitenziaria, servizi sanitari e attori esterni; definizioni variabili e disomogenee di “presa in carico” e “presa in cura”; numeri della presa in carico psichiatrica di molto inferiori rispetto a quello che, secondo alcune letture emergenziali, sarebbe l’altissimo numero di “psichiatrici” in carcere; sovraffollamento; carenza di organico; tendenza a ridurre l’intervento psichiatrico a micro-interventi.
Il carcere appare irrimediabilmente un luogo patogeno e la terapia sembra impossibile in assenza di libertà e di risorse adeguate. Gli operatori raccontano la propria frustrazione e il senso di inadeguatezza, mentre il ricorso al farmaco appare come una tecnologia polivalente: strumento di controllo, di negoziazione e di adattamento alle condizioni detentive, ma anche sostituto di relazioni terapeutiche precarie.
Le Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (ATSM), nate per dare risposta alla fragilità psichica in carcere, operano in un vuoto in cui la cura rischia di confondersi con la disciplina.
Dietro i numeri si nascondono storie: operatori che cercano di resistere alle rigidità burocratiche per stabilire rapporti autentici; medici che oscillano fra cura e sicurezza; detenuti che chiedono ascolto, prima ancora che diagnosi.
Per questo, dalla ricerca è nato anche “Fratture”, il podcast de La Società della Ragione, disponibile su tutte le piattaforme: quattro episodi che intrecciano voci, suoni e testimonianze per restituire la complessità della salute mentale in carcere.

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