Clima e politica, Vanessa Nakate: “Basta ipocrisia sul continente africano”

Un continente devastato dalla crisi climatica, ma ancora lasciato fuori dai tavoli di discussione quando si parla di risorse e nuovi progetti. Come è avvenuto anche per il Piano Mattei o le proposte del G7 su clima e ambiente. Per Vanessa Nakate, attivista ugandese e volto tra i più noti del movimento Fridays for Future, “l’Italia non deve fare piani per il continente africano. Bisogna smettere di pensare all’Africa come uno Stato, quando invece è un territorio che ospita 54 Paesi. Come può una nazione decidere per 54? È inaccettabile”. Sulle ripercussioni del cambiamento climatico, sottolinea come eventi estremi e situazioni invivibili, dalla desertificazione alle alluvioni, producano effetti devastanti su molti aspetti della vita delle persone, dalla salute, all’istruzione, passando per l’economia. Intervenuta il 18 maggio all’Arena di Pace davanti a Papa Francesco, è convinta che non si possano scindere le riflessioni sulla protezione del mondo e la stabilità politica.   

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Nakate, perchè essere presente all’Arena di Pace a Verona e che impressione hai avuto di quel giorno?

Ho partecipato all’Arena di Pace perché capisco la connessione profonda che esiste tra pace e ambiente. In un certo senso, gli sforzi per costruire la pace non potranno mai avere successo se gli effetti del cambiamento climatico continueranno a piegare alcune comunità. La pace non è solo assenza di guerra, è molto di più. Abbiamo visto e conosciamo territori in cui le risorse sono state depredate e il risultato è stato lo scontro violento. Le cause sono diverse, ma una delle ragioni più importanti è il fatto che le risorse della Terra sono limitate. Bisogna ricordarlo sempre quando parliamo dell’interconnessione tra pace e questioni climatiche, perché i due ambiti si influenzano l’uno con l’altro. L’impressione che ho avuto a Verona il 18 maggio è stata quella di uno spazio in cui incontrare persone davvero diverse tra loro, ma che stanno lavorando tutte a un progetto di pace, in base a ciò che conoscono. Mi hanno ispirato e, grazie a questa opportunità di dialogo, ho potuto portare al Papa il mio discorso. Credo che quando si comincia a ragionare di temi comuni, la chiesa abbia una grossa responsabilità come leader spirituale, di spingere verso la protezione del creato: in fondo, penso che quella di proteggere la natura sia stata la prima missione alla quale Dio ci ha chiamato. 

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Quali sono le sfide più grandi che il continente africano deve affrontare nei prossimi anni?

Rispetto ai temi ambientali, si deve riconoscere che l’Africa subisce tante delle conseguenze peggiori della crisi climatica, nonostante sia responsabile solo del 4 per cento delle emissioni storiche

Rispetto ai temi ambientali, innanzitutto si deve riconoscere che l’Africa subisce tante delle conseguenze peggiori della crisi climatica, nonostante sia responsabile solo del 4 per cento delle emissioni storiche (ossia quelle che hanno emesso gli Stati dal 1850 a oggi, ndr). Molti dei Paesi africani soffrono già oggi impatti devastanti: ho avuto la possibilità di incontrare comunità nel corno d’Africa, con i bambini che soffrono di grave malnutrizione, perchè non hanno accesso al cibo. Anche l’acqua scarseggia a causa della siccità che minaccia milioni di persone di morire per fame. Oltre a questo, poi, ci sono le inondazioni, nei Paesi dell’Est, con i cicloni nella parte sud che costringe chi vive quei territori a sfollare, distruggendo intere economie. Con i disastri climatici che continuano a moltiplicarsi, interi settori saranno stravolti. Qualche mese fa in Sud Sudan le scuole sono rimaste chiuse a causa di ondate di calore di 45 gradi centigradi, mentre in Kenya, gli istituti hanno dovuto lasciare a casa gli studenti per colpa delle piogge torrenziali e delle alluvioni. Oggi riconoscere la crisi climatica dà la possibilità di individuare i problemi correlati ai quali non si pensa: non dare risposte concrete distrugge l’educazione, la salute, le infrastrutture, i servizi. Con ripercussioni gravissime sulla crescita delle giovani generazioni.
 

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Cosa serve per fare fronte a questo problema?

Nel breve periodo, dare sempre più spazio alla finanza climatica. Affinché le nazioni africane siano in grado di adattarsi alla crisi climatica, per quanto si parli della necessità di finanziare le perdite e i danni (il fondo Loss and damage, che ha visto all’ultima Cop l’inizio dei stanziamenti da parte del Paese ospitante, gli Emirati Arabi Uniti, ndr), se non ci sono finanziamenti per l’adattamento, ci saranno ancora più perdite e danni. 

Il progetto Eacop è una delle infrastrutture estrattivste che si stanno costruendo nel continente africano. A che punto è il processo di realizzazione e di quali conseguenze si tengono all’oscuro i cittadini?

Spesso ci dicono: “Ci serve questo impianto perché porta sviluppo. È necessario per i posti di lavoro e per le nostre comunità”. Poi, però, se si va a vedere che cosa ha portato lo sviluppo dell’estrazione dei gas fossili al continente africano, notiamo che di certo non ha aiutato le 600 milioni di persone che nella zona sub-sahariana non hanno ancora accesso all’elettricità

Non sono andata personalmente nei territori dove l’Eacop sarà realizzato, ma sono stata coinvolta nelle azioni di advocacy per chiedere ai leader quale fosse la loro strategia di sviluppo, soprattutto nel mio Paese, l’Uganda. Spesso ci dicono: “Ci serve questo impianto perché porta sviluppo. È necessario per i posti di lavoro e per le nostre comunità”. Poi, però, se si va a vedere che cosa ha portato lo sviluppo dell’estrazione dei gas fossili al continente africano, notiamo che di certo non ha aiutato le 600 milioni di persone che nella zona sub-sahariana non hanno ancora accesso all’elettricità. Crediamo che il vero progresso stia nella possibilità dei cittadini di accedere in molto equo alle energie rinnovabili, senza lasciare nessuno indietro. Ma una cosa è certa: per Paesi come l’Uganda sarà difficile fermare gli investimenti di questo tipo se continuerà ad arrivare domanda di trivellazioni e di gas climalteranti dai Paesi del Nord globale. Per questo è necessario che chi ha beneficiato per più di un secolo dell’estrattivismo ora cominci a dare l’esempio abbandonando definitivamente questo tipo di combustibili. 

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All’ultima riunione del G7 sul Clima e l’Ambiente svolto in Italia (Torino, 28-30 aprile), nel documento finale compariva diverse volte la parola “Africa”, ma nessun Paese del continente era presente al tavolo delle discussioni. Cosa pensa di questa scelta?

Abbiamo visto diverse volte discussioni che riguardavano risorse o territori del continente africano senza alcuna rappresentazione degli Stati che lo compongono. Ed è, anche a livello storico, un punto molto problematico, a partire dalla spartizione del continente, fino ad arrivare alla sua devastazione. Per questo, spingiamo affinché esista, per quanto riguarda il clima, un Africa Climate Summit, uno spazio in cui si discutono soluzioni africane, proposte da persone africane, perchè non esistono metodi per dare risposte alla crisi climatica senza coinvolgere chi deve diventare protagonista del proprio sviluppo.

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Che impressione ha del piano del governo italiano per l’Africa, il cosiddetto “Piano Mattei”? 

Ci stiamo ritrovando in una situazione che ricalca gli sbagli del passato. L’Italia non deve fare piani per il continente africano

Non ho molte informazioni a riguardo. L’unica cosa che mi sento di dire è che ci stiamo ritrovando in una situazione che ricalca gli sbagli del passato. L’Italia non deve fare piani per il continente africano. Bisogna smettere di pensare all’Africa come uno Stato, quando invece è un territorio che ospita 54 Paesi. Come può una nazione decidere per 54? È inaccettabile: abbiamo la saggezza, l’intelligenza e le competenze per costruire il nostro futuro, decidere quale mondo vogliamo abitare. 

In Europa sempre più spesso chi si batte per il clima viene criminalizzato. Come si sta evolvendo la situazione, dal tuo punto di vista?

Stiamo notando, e non solo in Europa, come attivisti e difensori dell’ambiente vengano attaccati, così come i membri delle comunità indigene talvolta addirittura perdono la vita. Anche nel mio Paese, chi protesta contro progetti come l’Eacop viene arrestato ed è difficile comprendere come chi si batte per fare del mondo un posto più vivibile per tutti rischi più di chi lo sta facendo morire. Non esistono affari in un pianeta morto.

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Quanto è difficile per te portare avanti questo impegno in prima fila?

Sento molto le aspettative e non è semplice gestirle, a volte. Mi ha aiutato molto sapere che, dalla mia posizione, posso raggiungere tante persone, attraverso i media e gli eventi. Un altro aspetto che mi rassicura è sapere di non essere sola: Fridays for future è un movimento globale, quindi mi accorgo di non essere diversa da tanti altri miei compagni attivisti. Questo mi aiuta a tenere i piedi per terra e realizzare che tutti siamo necessari e facciamo la nostra parte per comunicare l’urgenza della crisi climatica: chi sciopera, chi tiene i cartelloni, chi suona, chi prepara il cibo per tutti, chi offre l’acqua a chi sta manifestando. In un certo senso, il movimento non può esistere, se mancano i singoli a supporto.

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Qual è un obiettivo che vorresti vedere raggiunto tra 10 anni?

È impossibile parlare per tutto il movimento. Quello che Fridays for future ha fatto negli scorsi cinque anni ha permesso a migliaia e migliaia di persone di conoscere e mobilitarsi contro la crisi climatica. Ma continuare a ripetere che esiste questo problema e basta può diventare frustrante. Serve azione, serve mettersi in discussione, alzare la voce e continuare a parlare. Spero che i prossimi anni possano essere un periodo di rinnovamento, in cui nuovi giovani attivisti crescano credendo in quello che noi abbiamo iniziato a costruire. Chi ha fatto parte del movimento nei primi anni ormai è adulto ed è per questo che chi ha sperimentato in questi anni aiuti a crescere chi si sta avvicinando ora alla protesta per il clima. 

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I contesti internazionali come le Conferenze sul Clima (Cop) hanno ancora senso?

Abbiamo bisogno della forza delle persone ma anche di momenti, come le Cop, in cui si colga l’opportunità di mettere su carta delle ambizioni, che gli Stati si impegnano a rispettare

Abbiamo bisogno della forza delle persone ma anche di momenti, come le Cop, in cui si colga l’opportunità di mettere su carta delle ambizioni, che gli Stati si impegnano a rispettare. Ci sono molti attori che partecipano, dagli attivisti dei Paesi più colpiti dal cambiamento climatico ai ministri degli Stati, fino a uomini d’affari di grandi multinazionali del fossile. Ognuno di loro ha degli interessi differenti, ma bisogna essere presenti, far sentire la pressione di milioni di persone che vogliono essere rappresentate: ecco perchè avere una delegazione lì è fondamentale. Dobbiamo presentarci e fare domande scomode, chiedere conto delle promesse non mantenute e chiedere una transizione equa. Batterci per la giustizia climatica.

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