Alla fine di gennaio, è uscita la sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato incostituzionali i controlli visivi durante i colloqui in carcere. Prima di affrontare il percorso di applicazione della sentenza, è opportuno approfondire il carattere rivoluzionario generale della sentenza, come volano di cambiamento della cultura del carcere. In primo luogo, come ha scritto Sarah Grieco (Fuoriluogo, 31 gennaio) la pena riacquista il suo giusto posto: è costituzionalmente legittima solo se inflitta “nella misura minima necessaria”. Si svela allora la sofferenza “non necessaria” della mortificazione del corpo sessuato, alla base del dispositivo della sorveglianza a vista continuata. La quale, ben oltre le dichiarate finalità di sicurezza, aveva lo scopo di ribadire la “soggezione” quale corollario della reclusione: bene rappresentata dal corpo “spogliato di eros”, impedito in una espressione fondamentale dell’essere umano, quale la sessualità.
Se è vero che l’interdizione della sessualità dentro le mura è stato un caposaldo di disciplinamento del carcere, si comprende allora perché ci sia voluto così tanto tempo (oltre venti anni) per eliminarlo.

Al tempo stesso, si colgono altre espressioni del “corpo asessuato” e privato di soggettività: ad esempio, nelle pratiche che segnano l’ingresso in carcere. Si vedano i sofferti ricordi di molte detenute circa l’umiliazione del doversi denudare e il trauma della perquisizione (in Recluse, Futura, 2023). Dall’esclusione della sessualità alla proibizione di ogni contatto fra i sessi: si può allora citare la resistenza alle attività e ai corsi scolastici “misti”, considerati in genere dalle amministrazioni “di difficile gestione”. Con conseguenze punitive per le donne, che sono private di opportunità educative e formative, visto che, data la limitata presenza di donne in carcere, “non vale la pena – si dice- investire su numeri così bassi”. I numeri sono persone, ma la sessuofobia è un potente schermo alla realtà.

Per non dire che il controllo visivo continuo ribadiva la perdita totale, materiale e simbolica, dello “spazio per sé”. Eppure, uno spazio per sé, uno spazio riservato al “corpo per sé”, è fondamentale per “rimanere sé stessi e sé stesse”.
Sono significative le voci dei detenuti da una ricerca condotta nel carcere di Frosinone circa il significato della intimità negata: salta in primo piano l’esigenza di un luogo fuori dallo sguardo intrusivo, per recuperare l’integrità di sé e accedere alla pienezza del rapporto con l’altro/altra (www.societadellaragione.it/campagne/affettivita/).

Dunque, la sentenza, oltre a offrire uno strumento per decostruire ad ampio raggio la cultura del corpo recluso, ci indica la via per costruire uno “spazio mentale” che accompagni di pari passo la ricerca di spazi fisici negli istituti di pena, necessaria per rendere effettivo il diritto alla intimità/sessualità. Il che rimanda a momenti di formazione/informazione di tutti i soggetti del carcere, per inquadrare il nuovo diritto nell’ambito della valorizzazione delle relazioni, in primo luogo con le persone care. Potrebbe essere un’idea valida per creare un clima di supporto all’esercizio della sessualità, in raccordo con le richieste dei detenuti e delle detenute per accedere ai loro diritti. Va in questa direzione l’iniziativa di Sbarre di Zucchero di predisposizione di moduli che i singoli/le singole potranno inoltrare alle direzioni degli istituti. Che va sostenuta tramite un coordinamento delle varie Ong che operano nel carcere.

Altrettanto importante è tirare fuori dal cassetto gli studi che hanno precorso gli eventi, come quello del 2021 (La dimensione affettiva delle persone in detenzione), del Garante dei detenuti della Toscana insieme alla Fondazione Michelucci: in cui la ideazione di nuovi spazi per i colloqui intimi procede da un nuovo modo di guardare al recluso/a e delle sue relazioni.