Afghanistan, l’industria dell’oppio

Afghanistan, l’industria dell’oppio
Da Narcomafie, numero 12, dicembre 2009

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L’Afghanistan è senza pace. La guerra, iniziata nel 2001 a seguito dell’attacco terroristico alle Twin Towers di New York, continua ancora. Nonostante la presenza di oltre 100mila militari, tra truppe americane e contingenti inquadrati nell’Isaf (la missione organizzata sotto l’egida della Nato), l’ombra del terrorismo aleggia, persistente, nel paese. Le cronache, ogni giorno, raccontano di attentati kamikaze, imboscate, agguati, scontri a fuoco, lancio di razzi e di granate, rapimenti pianificati dai talebani. Nelle province meridionali, poi, la guerriglia islamista ha il pieno controllo del territorio. Lì, le forze internazionali, non riescono a sfondare. Kandahar, Farah e Helmand sono off-limits.

Eroina e non solo: vecchi e nuovi traffici nell’Afghanistan dei talebani

La democratizzazione ha tempi lunghi. Ma non sono soltanto i talebani a sabotare la pace. Altri gruppi hanno imbracciato il fucile. I signori della guerra, che senza guerra non sanno stare, hanno mobilitato i loro uomini contro il governo del riconfermato presidente Hamid Karzai e i contingenti internazionali. Senza contare, inoltre, i tanti estremisti islamici che, attratti dalle sirene della jihad, sono accorsi in Afghanistan. Specialmente dal Pakistan, le cui aree tribali sono diventate un formidabile serbatoio di miliziani. La situazione, insomma, è quanto mai ingarbugliata. Chi credeva che la campagna afghana sarebbe stata una passeggiata e che la democrazia avrebbe messo radici rapidamente, ha dovuto ricredersi. La verità è che ci vorranno anni prima che l’Afghanistan si normalizzi. Chissà quanti altri ancora. Perché ai problemi di oggi vanno aggiunti quelli ereditati da un passato recente, listato da un trentennio ininterrotto di conflitti. Prima di quello del 2001 c’è stata infatti l’invasione e la lunga occupazione sovietica. Terminata la quale, nel 1989, è arrivata una breve ma cruenta parentesi di vuoto di potere, in cui i vari dignitari locali hanno incrociato le lame, combattendosi senza pietà. Poi, nel ’94, è scoppiata la rivoluzione oscurantista e liberticida dei talebani, sostenitori del terrorismo e della galassia qaedista. Trent’anni di guerra hanno portato lutto, seminato devastazione, distrutto le basi economiche del paese, sventrato scuole, ospedali e infrastrutture, creato ampie sacche di povertà, azzerato classi dirigenti, costretto all’esilio i migliori cervelli.

Un narcostato a tutti gli effetti

I talebani hanno soffocato le donne nel burqa e vietato l’alcol, ma sull’oppio hanno fatto finta di nulla perché rimpinguava le loro casse e quelle di Osama bin Laden

Disordine perenne, guerre, povertà cronica, assenza dello Stato: da un simile quadro l’industria dell’oppio ha avuto tutto da guadagnare. Già, l’oppio. In Afghanistan si concentra il 90 per cento della produzione mondiale. Nel 2008, secondo i dati dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime), il raccolto è stato pari a 6.900 milioni di tonnellate. Di solito, prima di appiccicare addosso a un paese l’etichetta di narcostato ci si pensa due volte. Nel caso afghano, neanche una. L’oppio rappresenta il capitolo più importante del prodotto interno lordo di Kabul – sul quale incide per più d’un terzo – e il meccanismo trainante dell’economia. Tutto, in Afghanistan, passa attraverso il papavero. L’economia bianca come quella nera. I redditi dei contadini, i soldi depositati nelle (poche) banche e i prestiti da essi emessi, quelli spostati dai tanti hawaladars, i corrieri deputati al trasferimento di somme di denaro, che scorrazzano da un capo all’altro del paese e attraversano le frontiere della regione. Le finanze dei terroristi, infine e ovviamente. È provato, d’altronde, che i talebani e i gruppi impegnati nella jihad comprino armi e munizioni attraverso i proventi del comparto narcotico. Non è la loro unica forma di finanziamento. Ci sono pure i fondi che arrivano dall’estero, da donazioni private provenienti dai paesi arabi, Arabia Saudita in testa. Ma l’oppio è comunque una voce importante. Importantissima.

La droga devasta l’Afghanistan, ma anche il resto del mondo. L’Unodc (l’ufficio delle Nazioni unite sulla droga e il crimine), di recente, ha messo in luce come il mercato mondiale dell’oppio e del suo principale derivato, l’eroina, ricavata dopo un processo di raffinazione chimica, faccia circolare annualmente qualcosa come 65 miliardi di dollari, renda dipendenti quindici milioni di persone e ne uccida 100mila. Una cifra, quest’ultima, che supera di cinque volte il totale dei soldati americani e dell’Isaf caduti sul campo a Kabul in questi otto anni di guerra. Il numero più elevato, sia di consumatori, sia di vittime, si ha in Russia. È vero che negli ultimi anni la produzione di oppio ha registrato un grosso salto di qualità. Ma questa narcoindustria, tuttavia, non è una novità degli ultimi anni. Ha messo radici da tempo. Operava già negli anni 60 e 70. Durante l’occupazione di Mosca ci fu un ulteriore balzo in avanti. I signori della guerra e i mujahideen in lotta contro i sovietici trovarono nel narcotraffico un’indispensabile cornucopia e nell’America un’alleata indulgente, che chiuse volentieri un occhio davanti a certe dinamiche, malgrado la guerra globale alle droghe dichiarata da Ronald Reagan. Venuta meno la presenza sovietica in Afghanistan, l’industria dell’oppio ha continuato a macinare proventi. I signori della guerra, durante il vuoto di poteri precedente la rivoluzione islamica dei talebani, vi hanno attinto allo scopo di sostenere i loro eserciti e nel ’91 l’Afghanistan è diventato il principale produttore mondiale, superando l’ex Birmania (oggi Myanmar) e lasciandosela in seguito sempre più alle spalle. Anche in epoca talebana il papavero ha continuato a fiorire. Gli studenti coranici hanno soffocato ogni forma di libertà, “incappucciato” le donne con il burqa, vietato l’alcol e qualsiasi pratica sociale contraria alla loro visione radicale dell’Islam. Ma hanno lasciato che nel paese si continuasse a coltivare, commerciare, raffinare, esportare l’oppio. Perché l’oppio rimpinguava le loro casse e quelle di Osama bin Laden, notabile del terrore.

Narcotraffico, il nemico corre veloce

Il rafforzamento dei cartelli 

Il resto è cronaca recente. Dopo il 2001 la produzione è schizzata sempre di più verso l’alto e adesso ribaltare la tendenza è diventata una sfida molto, molto impegnativa. Anche perché la lotta al narcotraffico s’incrocia con la sicurezza e il progresso economico. Due fattori che latitano, nell’Afghanistan odierno. Anche perché il traffico – punto secondo – si sta svincolando dall’insurrezione e reprimerlo è diventato più complesso. Come scrive il direttore dell’Unodc Antonio Maria Costa nell’Afghanistan Opium Survey 2009, diffuso lo scorso settembre, “è ormai evidente che i gruppi antigovernativi si stanno trasformando in cartelli del narcotraffico. I ribelli sono sempre più coinvolti nella coltivazione, nello stoccaggio, nella raffinazione e nell’esportazione”. È proprio l’aumento dei centri adibiti alla raffinazione che indicherebbe, a detta degli esperti, il rafforzamento dei cartelli e il fatto che l’oppio non costituisce più solo una fonte d’introito per la guerriglia, ma che sta diventando la base di un’attività criminale in costante e trionfale ascesa. Spiega a Narcomafie Rosario Aitala, magistrato esperto di narcotraffico e criminalità organizzata: “Il rapporto tra produzione di oppio grezzo e raffinazione d’eroina è il paradigma di questa evoluzione. In Afghanistan si raffina sempre di più e i profitti dei narcotrafficanti aumentano”. Si sta pure sviluppando una forma di estorsione, che ricorda un po’ il meccanismo in base al quale nasce il primo nucleo della mafia, aggiunge Aitala, riferendo inoltre che talebani e signori della guerra chiedono il pizzo sul coltivato in determinate aree. Principalmente le province del meridione. Quelle impenetrabili, dove la guerriglia ha il pieno controllo del territorio. Kandahar, Farah, Uruzgan e soprattutto le aree dell’Helmand, la zona che vanta il primato, sul fronte della coltivazione del papavero. Qui le piantagioni occupano una superficie di 70mila ettari, su un dato nazionale pari a 123mila ettari.

La Banca Mondiale, in un suo paper del 2005 (Responding to Afghanistan’s Opium Economy Challenge), indicava alcuni sintomi del fenomeno cartellistico emersi negli ultimi tempi. Due i principali. Il primo coincide con il passaggio da una struttura frammentata a una caratterizzata dalla presenza di un nocciolo duro di potentati locali. La presenza di tanti piccoli trafficanti, che caratterizzava fino a pochi anni fa il mercato della droga in Afghanistan, è sempre più flebile. Quella dei potentati criminali, ridotti nel numero, è invece in crescita. Punto secondo: c’è ormai una relazione “simbiotica” tra gruppi criminali e istituzioni, nonché un’ampia rete di protezione e una vastissima area, in seno a parlamento, governo, agenzie e strutture di sicurezza, viziata da corruzione.

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I padroni dell’oppio

Gli osservatori, nel tracciare l’impalcatura delle attività criminogene legate all’oppio, sono ricorsi alla classica metafora della piramide. Alla base, i piccoli agricoltori. Producono e poi rivendono ai piccoli trafficanti, operativi nelle zone rurali, che costituiscono il secondo livello della piramide. Costoro smerciano l’oppio ai dealer di stanza nei villaggi e nei capoluoghi rurali (terzo livello), che a loro volta entrano in contatto con trafficanti di più alto lignaggio. I medium level traffickers (quarto livello) secondo la definizione della Banca Mondiale. Fino a questo punto, il meccanismo di produzione, stoccaggio e traffico, è ancora magmatico. Poi, dal quarto livello in su, entrano in gioco i grandi cartelli e la fluidità d’un tempo viene meno. Il mercato viene gestito da una sorta di élite dei traffici – i key traffickers, una trentina di persone in tutto, secondo la World Bank – che organizza l’esportazione dell’oppio verso Pakistan, Iran e Asia centrale, controlla l’importazione di agenti chimici utilizzati nella raffinazione, supervisiona quest’ultima e regola domanda e offerta.

La collusione tra mafia e politica risulta provata dal fatto che il presidente Karzai ha sfornato numerosi provvedimenti di grazia nei confronti dei narcotrafficanti

Questi pesci di grossa taglia godono poi della protezione delle forze di sicurezza afghane, in buona parte composta dai miliziani fedeli ai signori della guerra che smessa la mimetica siedono oggi nel parlamento di Kabul o ricoprono funzioni di governo. Sarebbero loro, secondo gli esperti, i padroni dell’oppio, gli oligopolisti della droga. Gente che sfrutta il potere politico allo scopo di coprire le attività dei loro sottoposti, corrompere, nominare nei ranghi dell’amministrazione persone di loro gradimento, proteggere i propri interessi e mantenere integre le strutture, i meccanismi e le dinamiche che fanno funzionare a meraviglia l’industria del narcotraffico. Il loro metodo è semplice: appoggiano il governo centrale chiedendogli in cambio di starsene alla larga dai loro interessi. La collusione tra mafia e politica c’è e risulta provata – suggerisce a Narcomafie una fonte diplomatica – dal fatto che il presidente Hamid Karzai, a cui gli appoggi dei signori della droga e della guerra sono necessari per blindare il potere, ha sfornato negli ultimi tempi un numero sempre più ampio provvedimenti di grazia nei confronti dei narcotrafficanti, alcuni di loro vicini a parlamentari e ministri, pescati con le mani nel sacco.

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Non basta. Personaggi legati allo stesso capo dello stato sarebbero, secondo alcune ricostruzioni d’intelligence, in odore di mafia. Due nomi su tutti: Ahmed Wali Karzai e Mohammad Qasim Fahim. Il primo, fratello minore del presidente e governatore della provincia di Kandahar, è stato accusato più volte e, come riportava Time in un recente ritratto del giovane Karzai firmato dalla giornalista Aryn Baker, diplomatici, comandanti e membri della sezione narcotici della Nato si lamentano privatamente, ogni giorno, del fatto che il presidente lasci Ahmed Wali – tra l’altro accusato anche di essere al soldo della Cia – al suo posto, libero di gestire i suoi affari e di costruire le sue trame. Il secondo, invece, ex ministro della difesa e signore della droga schedato da tutti i servizi segreti occidentali, era stato nominato da Karzai come running mate in vista delle scorse presidenziali, tenutesi in agosto. Poi, però, le pressioni esercitate dagli americani, ostili alla nomina di Fahim a vicepresidente e convinti che avrebbe danneggiato l’immagine di Karzai e compromesso gli sforzi profusi per stabilizzare l’Afghanistan, l’hanno portato a cambiare in corsa il ticket.

Lo Stato che manca

Oltre ai provvedimenti di grazia scuciti da Karzai, i narcotrafficanti possono contare anche sull’inadeguatezza della giustizia e sulla facilità con cui, secondo le cronache, i togati vengono corrotti. Ma le debolezze dei magistrati non dipendono solo dalla loro facile corruttibilità. Pesano anche fattori culturali, di istruzione, di studio. “A oggi la maggioranza dei magistrati è priva di educazione giuridica. Solo pochi hanno studiato nelle facoltà di legge o di sharia; molti provengono invece dalle madrasse, le scuole coraniche dove si insegnano solo i precetti del libro sacro, drammaticamente insufficienti per esercitare la giurisdizione. I paesi impegnati nella ricostruzione e nel rafforzamento dello stato di diritto in Afghanistan, fra cui il nostro, li stanno formando. Ma questo è un processo molto lento. Per costruire un vero stato in Afghanistan saranno necessari decenni e il convergere di complesse condizioni fra cui la costituzione di istituzioni meno corrotte e arbitrarie, un adeguato rapporto centro-periferia, una riforma costituzionale che attenui il presidenzialismo estremo”. Anche Alessandro Minuto Rizzo, diplomatico italiano con una lunga esperienza nella Nato (è stato ex vice segretario generale dal 2001 al 2007, occupandosi in prima persona di Afghanistan), si sofferma sui tempi lunghi di cui l’Afghanistan ha bisogno, prima di farsi nazione. “Il paese ha vissuto decenni di conflitto permanente. Mancando scuole e ospedali, manca tutto, manca lo stato. Ricostruire i valori nazionali, stilare codici eticiregole e gerarchie non è né semplice, né immediato”, sottolinea l’ambasciatore.

Da Bush a Obama, gli effetti collaterali della strategia “colombiana”

Di tempi lunghi c’è bisogno anche sul fronte della lotta al narcotraffico. L’aggravante, poi, è che finora ci si è mossi male. Durante gli anni di Bush la strategia dell’America, paese guida delle forze internazionali impegnate in Afghanistan, s’è prevalentemente basata sull’esercizio della forza e sull’esibizione dei muscoli. Si è pensato solo a sgominare i talebani, nella convinzione che terrore e narcotraffico fossero due facce della stessa medaglia. Sul fronte del narcotraffico lo sradicamento ha costituito il pilastro della crociata contro l’oppio. S’è replicata, in altre parole, l’esperienza colombiana, quella della distruzione delle piantagioni di cocaina. Ma come in Colombia, anche in Afghanistan s’è ottenuto poco. La produzione d’oppio non ha subito battute d’arresto, i profitti dei cartelli non sono stati dimezzati, le casseforti della guerriglia non sono state forzate. Sull’abaco, Washington ha spostato poche biglie. Stesso discorso per Londra, sua principale alleata nella guerra all’oppio. Nel 2001, quando a Bonn si decise a chi affidare questa o quella funzione nella ricostruzione dell’Afghanistan, Londra s’assunse l’onere di gestire la lotta al narcotraffico, in coordinamento con l’Unodc. Fu l’allora premier britannico Tony Blair a rivendicare fortemente questo compito, in virtù del fatto che il Regno Unito è il paese Ue più flagellato dalla piaga dell’eroina. Annunciò, Blair, che avrebbe tolto il pane di bocca ai talebani e che di conseguenza avrebbe ridotto il consumo di eroina in patria. Nessuno di questi due obiettivi è stato colto.

Lo sradicamento ha costituito il pilastro della crociata contro l’oppio. S’è replicata l’esperienza colombiana. Ma come in Colombia, anche in Afghanistan s’è ottenuto poco

La politica dello sradicamento è stata non soltanto inefficace, ma ha avuto un pernicioso effetto collaterale, dato che a subirne le conseguenze, più che i grandi trafficanti, sono stati contadini e piccoli agricoltori, vale a dire la fascia sociale meno protetta dell’Afghanistan. Un esempio, quello della campagna per lo sradicamento lanciata nella provincia orientale di Nangarhar, è utile a capire le dinamiche sociali che la strategia “colombiana” ha innescato. Lo ha riportato Vanda Felbab-Brown, ricercatrice della Brookings Institution, think-tank progressista di Washington, in una recente ricerca intitolata The Obama Administration’s New Counternarcotics Strategy in Afghanistan. “A lungo Nangarhar ha rappresentato uno dei principali bacini dell’oppio. Ma negli ultimi due anni – ha scritto Felbab-Brown – complice la severa politica del governatore Gul Agha Shirzai, fondata sul divieto di coltivazione, sullo sradicamento forzato, sulle pene inflitte a chi non s’è adeguato a tali prescrizioni e sulla minaccia costante dei bombardamenti Nato sulle abitazioni dei coltivatori e degli stoccatori, la produzione è calata sensibilmente, avvicinandosi allo zero. Questa strategia è stata percepita come una storia di successo, da emulare. Ma la verità è che ha prodotto rilevanti conseguenze socio-economiche. Il 90% dei coltivatori ha perso tutto e s’è visto costretto a indebitarsi con le banche. A causa dell’assenza di alternative alla coltivazione dell’oppio (molto spesso costituisce l’unica fonte di sostentamento degli agricoltori, ndr) molta gente si è arruolata nell’economia criminale, ha preso parte a rapimenti e furti. Altri sono emigrati nella provincia meridionale di Helmand, dove hanno trovato lavoro nelle piantagioni, oppure nel vicino Pakistan, dove sono entrati nelle file del terrorismo. La popolazione locale, irritata e ridotta alla miseria, ha organizzato scioperi e attacchi alle forze fedeli a Kabul. Questo nonostante una tradizione ostile ai talebani”.

È successo lo stesso anche in altri territori con un background simile alla provincia di Nangarhar. Sostiene Alessandro Minuto Rizzo: “Il contadino afgano è povero, ha subito gli effetti delle guerre che il paese ha vissuto, è l’elemento debole della catena. Se percepisce le azioni governative come azioni ostili, che colpiscono il suo reddito, allora passa dall’altra parte, con i talebani e con chi si oppone alle istituzioni di Kabul. Lo sradicamento delle piantagioni d’oppio deve eventualmente essere accompagnato da finanziamenti e sicurezza. Senza lo sviluppo economico e senza la sicurezza, l’Afghanistan non si stabilizza. Né il narcotraffico si sconfigge. Perché se il governo di Kabul non è in grado di controllare una parte abbondante del territorio e se lo sviluppo rurale – e quindi le alternative di reddito fornite agli agricoltori – nonprende quota, l’oppio continuerà a essere prodotto in grandi quantità e i signori della droga faranno sempre grandi affari”.

“Il contadino afgano è povero, ha subito gli effetti delle guerre che il paese ha vissuto. Se percepisce le azioni governative come azioni ostili allora passa con i talebani”Alessandro Minuto Rizzo – Diplomatico, già vice-segretario generale della Nato

Un vuoto geopolitico

Un altro ingrediente da mettere in campo con maggiore convinzione, secondo gli esperti, è la cooperazione con i paesi limitrofi. Certamente con il Pakistan, con cui l’Afghanistan condivide più di 2.500 chilometri di frontiera e nelle cui aree tribali di confine si annidano terroristi, narcotrafficanti e terroristi-narcotrafficanti. Ma anche con l’Iran, con cui l’Afghanistan confina a ovest e da dove l’oppio risale in Europa, passando per la Turchia e sfruttando i corridoi balcanici (il Kosovo in particolare, dove transita l’80% dell’eroina diretta verso il vecchio continente). Nonché con il Turkmenistan, il Tagikistan e l’Uzbekistan, i vicini settentrionali di Kabul, da dove l’oppio afghano viene smistato verso la Federazione russa. “Finché ci sarà una situazione geopolitica così tesa e in assenza di una cooperazione profonda con i paesi limitrofi, il traffico d’oppio sarà difficile da contrastare. C’è un’analogia tra la regione dell’Asia centrale e i Balcani. C’è instabilità e ci sono nodi aperti. L’aggravante è che quelli centro-asiatici sono spazi geograficamente sterminati”, dice a Narcomafie Rosario Aitala. È proprio la presenza di questo grande vuoto geopolitico che dovrebbe spostare l’attenzione dalla produzione al traffico. Monitorare più attentamente i confini, allacciare su questo versante rapporti di collaborazione giudiziaria tra i vari paesi dell’area, scambiarsi informazioni sensibili dovrebbe essere la priorità, ragiona Aitala. “Il traffico è agevole, quindi – afferma il magistrato – se non si combatte il traffico non cala la produzione. In più emerge come in Afghanistan si raffini di più, rispetto al passato. Dato che per raffinare l’oppio e produrre eroina servono degli agenti chimici, la conclusione è che questi agenti entrano facilmente nel paese, complici delle frontiere poco controllate”.

Con l’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, le cose sembrano essere un po’ migliorate. La nuova amministrazione ha spostato il baricentro, affiancando al tema della sicurezza quello degli aiuti civili e del sostegno economico alla popolazione. Ma il piano di Obama è ancora allo stato embrionale. Bisognerà attendere, prima che venga applicato sul campo coerentemente. Intanto, l’Afghanistan continua a essere una polveriera e il narcotraffico a macinare profitti.

I numeri dell’Unodc

A dire il vero le cifre indicherebbero che le cose stanno raddrizzandosi, da prima che la strategia di Obama prendesse corpo. Il recente rapporto dell’Unodc sull’industria dell’oppio in Afghanistan evidenzia come nel 2008 tutti i principali indicatori siano diminuiti. La produzione è passata da 7.700 a 6.900 tonnellate, la superficie coltivata da 157mila a 123mila ettari, il numero delle provincie poppy-free, libere dal papavero, da diciotto a venti (sulle 34 complessive), le persone coinvolte nella coltivazione da 2,4 a 1,6 milioni. Ma i numeri sono ingannevoli, non sempre dicono la verità. “In modo particolare quelli dell’Unodc”, confida un’altra fonte diplomatica. “I dati dell’Unodc presentano numerose falle. I ranghi dell’agenzia – spiega la fonte – sono formati da burocrati che non hanno mai fatto un sequestro, che non hanno mai fatto indagini. I metodi, inoltre, sono superficiali. I numeri sono stimati sulla base di indici, il principale dei quali è l’intervista ai produttori. Ma il punto è che la produzione si è mano a mano spostata verso le province meridionali, quelle controllate dalle forze degli insorti. Dai talebani, dai banditi, dai signori della guerra, dai poliziotti e dai politici corrotti. In altri termini, il metodo è talmente incerto che è difficile prenderlo per buono. A volte c’è addirittura l’impressione che i dati siano truccati. Dopotutto, se si continua a dire che la produzione cresce, l’Unodc perde legittimità. Poi magari è anche vero che c’è stato decremento, ma prima di parlare di una tendenza occorre aspettare. Se si passa da 6mila tonnellate a 5mila, il passo in avanti è relativo. Bisogna guardare nel lungo periodo”.

Afferma Minuto Rizzo: “In merito alla lotta al narcotraffico si chiede da tempo che la Nato intervenga con decisione, assumendosene la responsabilità. Il problema, però, è che nella Nato ci sono opinioni divergenti. Da un lato c’è chi vuole combattere in prima linea contro i talebani e chi invoca un intervento diretto sul fronte della droga, dall’altro chi invece non vuole grane. Questa dicotomia non si è ancora risolta. A mio avviso, comunque, se anche la Nato diventasse più incisiva a livello di contrasto al narcotraffico, non sarebbe comunque sufficiente. I militari dell’Alleanza atlantica possono distruggere raffinerie e piantagioni, come indicare alle istituzioni e alle autorità di sicurezza locali i criminali. Ma il risultato finale dipende più che altro dalla volontà del governo di Kabul e dalla creazione di quello che è mancato finora: una strategia per lo sviluppo da affiancare a quella per la sicurezza. Se non arriva resteremo sempre ai piedi dell’albero”.

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