La docu-serie “Sanpa” vista dai media anglosassoni

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Da un mese a questa parte, sui media italiani e sui social, è in corso un acceso dibattito su SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano, prodotto televisivo uscito il 30 dicembre scorso, dedicato alla nota comunità di recupero riminese. Si tratta della prima docu-serie realizzata in Italia da Netflix, società statunitense attiva nella distribuzione a pagamento via internet di film, serie tv e altri contenuti di intrattenimento, il cui servizio dal 2016 è accessibile in 23 lingue da tutto il mondo (eccetto Cina, Siria, Corea del Nord e Crimea). A questo punto una domanda sorge spontanea: come è stata accolta dalla stampa estera la docu-serie italiana su San Patrignano? Ancora presto per dirlo e poter trarre delle conclusioni, ma qualche testata straniera se n’è già occupata. In questo primo articolo viaggeremo attraverso le parole scritte dagli Usa all’Australia, passando per il Regno Unito. Aprendo una finestra sul mondo anglosassone, del cui giornalismo si parla ciclicamente in Italia come modello nel quale le notizie sono separate dai commenti. Vediamo se è vero.

Partiamo dalla stampa di settore, così da fornire a quanti non l’avessero vista innanzitutto un’analisi specializzata sul prodotto in questione. Per farlo ci affidiamo al magazine ritenuto tra le fonti più autorevoli e affidabili nel campo dell’industria mondiale dell’intrattenimento, il settimanale statunitense Variety (il cui primo numero risale al dicembre del lontano 1905). Sin dalle prime righe dell’articolo pubblicato online il 5 gennaio scorso, il corrispondente dall’Italia della rivista, Nick Vivarelli, chiarisce prima di ogni altra cosa il successo di pubblico: «Nell’ultima settimana, la serie è entrata nella top 10 dei programmi della piattaforma più seguiti in Italia e attualmente occupa il secondo posto dopo Bridgerton». In merito al contenuto, per Variety si tratta di «un tuffo profondo nelle complessità dell’ascesa alla ribalta nazionale di Muccioli e nei dubbi metodi usati nel suo centro di riabilitazione». Il prodotto «nasce da un’idea del giornalista italiano Gianluca Neri (…) è stato realizzato da un team di produzione di prim’ordine (…) da una nuova società con sede a Milano chiamata semplicemente 42».

Nicola Allieta, senior distribution manager presso il distributore digitale Sweet Chili Entertainment (sede a Copenhagen) e artefice dello sbarco di Sanpa su Netflix, ha spiegato al magazine statunitense di settore che «l’idea [dietro 42] era quella di creare un’azienda che potesse realizzare un tipo di prodotto che ancora non esiste in Italia». Mentre Neri ha aggiunto che il loro obiettivo è «raccontare grandi storie con livelli di produzione di prim’ordine tali da poter circolare in tutto il mondo». In altre parole, Sanpa è soltanto il primo prodotto della 42, che per Variety è già al lavoro su nuovi progetti: un lungometraggio sulla produzione durante la Seconda guerra mondiale de La porta del cielo di Vittorio De Sica; una docu-serie sull’omicidio nel 2010 della 13enne Yara Gambirasio; un altro doc a puntate sul meccanico nautico Gianfranco Franciosi, che ha trasportato tonnellate di cocaina attraverso l’Atlantico per i cartelli colombiani e spagnoli, diventando un informatore della polizia italiana (storia già raccontata in una fiction Rai a partire dall’autobiografia del protagonista, tanto che Neri ha promesso che la docu-serie 42 andrà oltre la saggistica).

Dagli Stati Uniti facciamo ora scalo nel Regno Unito, dove il 19 gennaio ha scritto ad esempio di Sanpa il Daily Mail, ritenuto il secondo quotidiano britannico per numero di copie vendute, nonché la testata inglese online più letta al mondo. L’interesse per la docu-serie nel Regno Unito potrebbe anche derivare dalla presenza a Londra di San Patrignano UK, associazione fondata nell’estate 2013 dall’australiano Danny McCubbin, assieme ad altri ex ospiti della comunità fondata da Muccioli. Obiettivo dichiarato: cercare di commercializzare sul mercato londinese i prodotti realizzati a San Patrignano, ma soprattutto promuoverla in Inghilterra (dove a loro dire «le esperienze simili alla comunità terapeutica – i cosiddetti rehab – sono poche, con programmi di due o tre mesi e molto care»). Tornando al noto tabloid britannico conservatore (normalmente schierato contro l’Europa, l’immigrazione e l’aborto, ma a favore della famiglia classica, della monarchia e di pene più severe), a firmare l’articolo in questione è la vicedirettrice del sito del Daily Mail, Stephanie Linning. La giornalista riassume così ai lettori inglesi gli elementi chiave della docu-serie: «Se San Patrignano è considerata un successo, la vita del suo fondatore è avvolta nelle controversie», in quanto «Muccioli divenne noto per i passi estremi, a volte disumani, che era pronto a compiere pur di mantenere il controllo sulla comunità e i suoi incarichi». Per il tabloid, «le sue azioni sono state paragonate a quelle di un leader di una setta o di un boss mafioso, con responsabili deputati alla supervisione di “piccoli regni” in cui venivano inflitte punizioni violente ai residenti della comunità che infrangevano le regole o cercavano di scappare». L’articolo della Linning ricostruisce poi la vita di Muccioli, le origini di San Patrignano, le sue regole, i noti fatti di cronaca nera avvenuti all’interno della struttura e le vicende giudiziarie collegate.

A corredo del servizio del Daily Mail ci sono inoltre due box. Il primo, di contesto, spiega ai lettori che in Italia «a metà degli anni ‘70 l’eroina iniziò ad apparire in grandi quantità nelle strade. Il suo uso era inizialmente concentrato principalmente nella controcultura del Paese, ma all’inizio degli anni ‘80 il consumo di droga si era diffuso in tutti gli strati sociali. Portando ad un aumento devastante della dipendenza e dei decessi, creando quella che divenne nota come la “generazione scomparsa”». Il secondo box è invece dedicato ai dettagli dell’omicidio nella comunità dell’ospite Roberto Maranzano «padre di due figli». L’articolo della Linning ricorda ai lettori che in Italia quel delitto «ha fatto notizia a livello nazionale, rivelando l’orrenda portata delle pratiche violente nella comunità». Ma nonostante ciò, «anni dopo la morte di Muccioli, per molti in Italia San Patrignano resta una luce brillante (…) i gruppi Facebook raccontano storie di successo di residenti felici e delle loro famiglie che dicono gli abbia restituito i propri cari (…) altri tuttavia restano critici, sostenendo che il “lato oscuro” di San Patrignano deve essere conosciuto». Insomma, un articolo tutto sommato ben equilibrato. Ancora di più per un tabloid nazionalpopolare come il Daily Mail, negli anni più volte accusato di creare storie sensazionalistiche e approssimative, la cui credibilità è stata in passato minata dai risarcimenti pagati per articoli ritenuti del tutto privi di fondamento.

Da Londra, il nostro viaggio riprende in direzione Australia, grazie a un articolo pubblicato sul sito del mensile letterario, culturale e politico Quadrant, fondato nel 1956 come braccio mediatico locale del Congress for cultural freedom (gruppo anticomunista finanziato dalla Cia che è stato attivo in 35 nazioni). Pur non citando nemmeno di striscio la docu-serie tv, risale al 24 dicembre. Difficile pensare possa trattarsi di una semplice coincidenza, l’affrontare il tema San Patrignano da un punto di vista storico appena 6 giorni prima dell’uscita mondiale in pompa magna di un prodotto televisivo che ne ricostruisce le origini. Per almeno 2 ragioni: 1) L’imminente arrivo della serie era stato annunciato dalla stampa di settore almeno da fine novembre; 2) L’autore dell’articolo è il giornalista australiano di lungo corso Geoffrey Luck, già corrispondente estero della radiotelevisione pubblica Australian Broadcasting Corporation e italiano d’adozione. La sinossi di un suo libro di vent’anni fa riporta che si è trasferito nel nostro Paese «lasciando le normali comodità della vita in Australia, per acquistare la fattoria abbandonata dell’ultimo contadino di Varacca» – frazione di Paciano (Umbria) – «dalla quale rivolge un occhio australiano unico alla complessità, alle contraddizioni e alla lunga storia dell’Italia, andando oltre tutti gli stereotipi».

Pur non citando mai il prodotto tv Netflix, l’autore motiva così la scelta di trattare l’argomento anche in Oceania: «Mentre infuria il dibattito internazionale sulla tossicodipendenza – è una malattia del cervello o una scelta comportamentale – e cosa fare al riguardo, una comunità che si auto-finanzia in Italia viene regolarmente pubblicizzata come la soluzione ideale per il trattamento dei tossicodipendenti». Effettivamente, San Patrignano è stata più volte descritta e definita in questi anni dai media australiani come «un modello». Anche se in realtà, come chiarisce fin dalle prime righe l’articolo del Quadrant, più per l’aspetto economico di questa comunità italiana nella quale gli ospiti «trascorrono tre anni e mezzo imparando utili mestieri, senza paga e senza il telefono». Luck ricorda inoltre ai propri lettori che San Patrignano negli anni ha fatto proseliti: è stata imitata «da San Francisco a Londra», fino «a Geraldton, nell’Australia occidentale».

L’articolo di Luck per il Quadrant è scritto in modo approfondito, descrivendo con dovizia di particolari la storia di San Patrignano, quella del suo fondatore Vincenzo Muccioli e i metodi messi in campo. Espone inoltre in maniera chiara i tristemente noti fatti di cronaca: «Del capitolo oscuro che ha fatto quasi crollare quella comunità sperimentale». Il tutto, ben agganciato al contesto sociale e soprattutto politico dell’epoca in materia di droghe, fatto di «un altalenare tra decriminalizzazione e applicazione della legge». Ed è questo, forse, l’aspetto più interessante del lungo articolo di Luck. Si parte dalla «norma del 1975, approvata al culmine dell’influenza del Pci, il Partito Comunista Italiano, che prevedeva sanzioni molto più blande per il traffico di droghe “leggere” rispetto a quelle “pesanti”». Quindici anni dopo, «l’Italia aveva uno dei più alti numeri di “consumatori problematici di droga” d’Europa, i tribunali e le carceri erano sovraffollate (…) oltre il 30% dei detenuti italiani erano lì per droga». Eppure, proprio nel 1990, avviene la stretta repressiva con «l’ulteriore aumento delle pene per lo spaccio (fino a 20 anni) e la definizione dei tossicodipendenti non come vittime, ma come persone socialmente pericolose». Per Luck «il contraccolpo fu dirompente», definendo quell’inversione di rotta «la vittoria dei sostenitori della linea dura, guidati dalla Chiesa cattolica e dalle potenti associazioni private per il trattamento dei tossicodipendenti».

Tre anni dopo è la volta del «referendum del 1993 voluto dal Partito Radicale, che guidò la spinta alla legalizzazione, abolendo le pene detentive per i consumatori (…) una “quantità ragionevole” era consentita per uso personale, ma il consumo non era stato reso legale». L’anno successivo arrivano «le sentenze sul caso Maranzano», il padre di famiglia pestato a morte nella comunità riminese di cui era ospite. Una storia, quella di San Patrignano, che a parere dell’autore dell’articolo del Quadrant è «iniziata con misure repressive, ma si è stabilizzata nello sviluppo individuale», anche se «sulla collina ci sono fantasmi, nonostante questa sia una storia scritta fuori dalla storia ufficiale». Perché negli anni, la comunità fondata da Muccioli, per Luck è ugualmente riuscita a «schivare tutte le polemiche pubbliche su depenalizzazione, divieti e questioni morali». L’articolo del giornalista australiano si chiude infine con una riflessione di Roberto Nardini, presidente onorario del Gruppo studio e intervento malattie sociali (Sims) di Pietrasanta (Lu): «Non credo nell’aldilà, ma se esiste, non vorrei essere il fantasma di Muccioli quando incontra quello di Roberto Maranzano».

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