Italia-Francia, il nuovo asse del proibizionismo
Macron e Meloni hanno bisticciato fino all’altro ieri, almeno fino al bacio di giugno che ha teatralmente normalizzato i rapporti fra Italia e Francia. Ora cercano un terreno comune per dare l’abbrivio utile al riavvicinamento: cosa c’è di meglio della lotta alla droga per farlo?
Del resto, fin dal secolo scorso la lotta contro il “problema globale delle droghe” è diventata il terreno ideale per superare le divisioni fra gli Stati. Dimostrarsi inflessibili contro il demone della droga è riuscito a unire per decenni USA, URSS, Cuba, Cina e Iran. Certo, oggi – nel pieno della dottrina Trump – i rapporti sono molto più fluidi, oltre che tesi, ma le droghe restano un jolly sempre utile da pescare. Così, a margine del vertice della Comunità politica europea (EPC) a Copenaghen, che ha approvato un documento sulle droghe ricco di parole d’ordine tanto solenni quanto invecchiate male, Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron hanno lanciato congiuntamente la nuova Coalizione europea contro la droga. Se i leader europei si impegnano a “salvaguardare l’integrità delle nostre società”, il presidente francese e la premier italiana si mettono alla guida della riscossa della war on drugs. Cosa che farà felice il sottosegretario Mantovano, che ritrova una sponda internazionale dopo essere appena uscito – improvvisamente – dal gruppo Pompidou sulle droghe del Consiglio d’Europa, forse troppo incline a tener conto delle evidenze sull’efficacia della riduzione del danno.
Nello scarno comunicato di Palazzo Chigi – agli uffici stampa basta evocare il demone per far serata – si sottolinea l’importanza della piena attuazione del principio follow the money. L’azione di repressione dell’offerta dimostra del resto ogni giorno la propria inefficacia. A guardare i dati diffusi in questi giorni dalla Direzione centrale dei servizi antidroga, si comprende bene come i sequestri di sostanze siano assolutamente incapaci di incidere sul mercato illegale. Basta un sequestro “record” per far impennare le quantità, che crollano inesorabilmente l’anno successivo. Succede un po’ per tutte le sostanze, ma quest’anno è lampante per la cocaina (–44% di quantità sequestrata a fronte di un aumento del 10% delle operazioni) e per le droghe sintetiche (+419% di dosi sequestrate a fronte di “sole” 379 operazioni, +12%). L’unico reale dato di novità che emerge dalla relazione è il trend del crack, i cui sequestri sono quasi quadruplicati dopo il Covid, mentre gli arresti sono decuplicati dal 2019. Eppure di crack il governo non parla, impegnato com’è nella sua crociata contro la canapa o nell’evocare lo spettro del fentanyl. Quando ne parla, lo fa strumentalmente e male, come successo per le pipette distribuite a Bologna, al limite invocando qualche inutile zona rossa e lasciando la patata bollente ai sindaci (soprattutto a quelli di centrosinistra), che devono gestire gli effetti di spaccio e consumo nei quartieri.
Follow the money diventa così l’asso di briscola: se non si riesce ad impedire il mercato, tanto vale cercare di individuare e intercettare i proventi del narcotraffico. Peccato che anche lì le cose non vadano storicamente benissimo. Se si stima, benevolmente, che i sequestri di narcotici rappresentino il 5-10% della quantità immessa sul mercato, per quanto riguarda il recupero del denaro riciclato questa percentuale scende sotto l’1%.
Ma in fondo che importa che funzioni o meno? L’importante è costruire l’unità contro il male e poter raccontare di una nuova “Santa Alleanza” dei “puri” contro i “peccatori”. Una linea di restaurazione che vede gli Stati Uniti di Trump in pole position, nel tentativo di riportare il mondo sulla retta via della sacralità e ineluttabilità della war on drugs.
Questa però fa ormai acqua da tutte le parti, tanto che perfino il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) ha pubblicato un rapporto che intreccia per la prima volta in maniera organica politiche sulle droghe e Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU (SDG). Il report sottolinea come i mercati illegali, dominati dal crimine organizzato, ostacolino sviluppo, sicurezza e democrazia, mentre la criminalizzazione alimenta stigmatizzazione e barriere nell’accesso ai servizi sanitari. Allo stesso tempo, le comunità più marginalizzate – dai piccoli produttori rurali ai consumatori – pagano il prezzo più alto. Anche l’UNDP invita a un cambio di paradigma: integrare le politiche sulle droghe nelle strategie di sviluppo sostenibile, valorizzare approcci equi e sensibili al genere, promuovere mercati legali regolamentati che garantiscano democrazia, giustizia sociale, tutela ambientale e rispetto dei diritti umani.
Non è quindi un caso che, replicando quanto fatto a marzo nella sessione plenaria della Commissione droghe dell’ONU (CND), gli USA abbiano ribadito – intervenendo recentemente a una riunione a Vienna – che “gli SDG sono irrilevanti quando si tratta di impedire ai criminali di diffondere veleno nelle nostre comunità.” Il tentativo è quello di far tornare “la CND al suo mandato principale e smettere di sprecare tempo e risorse su questioni politiche controverse”, concentrandosi invece “sull’interruzione dell’approvvigionamento di droga e sulla sicurezza delle nostre comunità”.
Proprio lo scorso marzo la CND aveva deciso di porre sotto revisione l’intero sistema di controllo sulle droghe (vedi l’Unità, 29 marzo 2025). E in questi giorni, a Ginevra, il 48° Expert Committee on Drug Dependence (ECDD) dell’OMS rilascerà il rapporto sulla revisione critica della foglia di coca.
Si tratta di un processo richiesto dalla Bolivia con il sostegno della Colombia per salvaguardare l’uso tradizionale indigeno, che potrebbe rivelarsi epocale. La bozza del documento conclude che «la ricerca non ha rivelato evidenze di danni clinicamente significativi per la salute pubblica associati all’uso della foglia di coca». Non solo: ricorda che «la letteratura scientifica contemporanea resta coerente con il rapporto OMS-UNICRI del 1995», già allora favorevole a una distinzione netta tra foglia di coca e cocaina e rimasto in un cassetto per pressioni politiche. Per la prima volta da decenni, un organismo tecnico delle Nazioni Unite riconosce ufficialmente che la criminalizzazione della foglia di coca non ha basi sanitarie. La coca viene descritta come una pianta complessa e benefica, ricca di alcaloidi, flavonoidi e fenoli, con effetti stimolanti lievi, antinfiammatori e antiossidanti, e con un uso tradizionale che da secoli sostiene il lavoro, la salute e la cultura delle popolazioni andine. Non ci sono prove di dipendenza significativa né casi documentati di overdose fatale. E, soprattutto, il Comitato evidenzia che «la documentazione scientifica dimostra in modo robusto i danni sostanziali per la salute pubblica associati alle strategie di controllo della coca, a tutte le scale». Dietro questa frase ci sono le fumigazioni al glifosato in Colombia, le persecuzioni ai coltivatori indigeni, le esposizioni tossiche, gli aborti spontanei e le malattie respiratorie e cutanee studiate e collegate direttamente alle politiche di eradicazione.
La revisione scientifica, se raccolta dall’OMS in forma di raccomandazione come fu per la cannabis nel 2020, aprirebbe la strada alla richiesta formale di rimozione della foglia di coca dalla Tabella I della Convenzione ONU del 1961, dove è tuttora equiparata a eroina e cocaina pura. Per i popoli andini, e per chi da anni denuncia l’assurdità del bando globale, questo rapporto rappresenta una rivincita storica della scienza contro il proibizionismo neocolonialista.
Non bastassero UNDP e OMS a guastare i piani di restaurazione, ci si mette anche il Consiglio dei diritti umani dell’ONU (HRC), che la scorsa settimana ha riaffermato che la politica sulle droghe deve essere pienamente allineata agli strumenti internazionali sui diritti umani. Il Consiglio ha approvato, respingendo a larga maggioranza tutti gli emendamenti peggiorativi presentati dalla Russia, una risoluzione presentata dalla Colombia e sostenuta da 35 Paesi che conferma e amplia quanto già affermato nel 2023 (quando anche l’Italia fu fra i firmatari). Il testo riconosce formalmente il ruolo del sistema ONU per i diritti umani – dal Consiglio (HRC) all’Alto Commissariato (OHCHR) – come interlocutore a pieno titolo nella politica globale sulle droghe, tradizionalmente dominio degli organismi di Vienna (CND e UNODC). Per la prima volta, l’HRC si impegna a “rimanere investito della questione” e invita i propri meccanismi a condividere contributi e raccomandazioni con la Commissione sugli stupefacenti. Oltre a questo, consolida e amplia il riferimento alla riduzione del danno, l’impegno contro la discriminazione razziale e a tutela dei popoli indigeni. Infine, l’OHCHR riceve il mandato di redigere un nuovo rapporto sulle implicazioni delle politiche sulle droghe per i diritti di donne e ragazze.
A guardare quel che succede fra New York, Ginevra e Vienna ci sarebbe solo da gioire per la società civile internazionale impegnata nella riforma. Purtroppo, avviene nel momento di più bassa autorevolezza degli strumenti del multilateralismo ONU, messi a dura prova dal bullismo diplomatico e dalle azioni criminali che mettono in discussione l’esistenza stessa del diritto internazionale.
Un esempio – che passa in secondo piano rispetto a quanto accade altrove, a partire dalla Palestina – sono gli attacchi militari “antinarcotici” voluti da Trump contro le imbarcazioni di presunti trafficanti venezuelani nel Mar dei Caraibi: vere e proprie esecuzioni extragiudiziali, rappresentazione plastica dell’impunita violazione delle più elementari norme del diritto internazionale. E forse anche del “nuovo ordine mondiale” che qualcuno vorrebbe imporre.
Tornando in Europa preoccupa il dibattito all’interno dell’Unione, che da alcuni anni ha riportato al centro la repressione, marginalizzando anche nei canali di finanziamento la progettualità legata alla ricerca e alla riduzione del danno. Da questo approccio neoproibizionista, certamente influenzato dalla presa di potere delle destre sovraniste, pare viziata anche la nuova strategia europea sulle droghe, su cui la commissione ha iniziato le consultazioni.
In un mondo che chiede riforme, l’Europa tentenna e lascia spazio alla restaurazione che trova nuovi alfieri a Parigi e a Roma. Ma fuori dai palazzi, la società civile non si arrende: è lì, tra chi combatte lo stigma, cura, riduce i danni e costruisce alternative, che si intravede la direzione giusta. Quella che in Italia porta alla contro-conferenza sulle droghe, il 6-7-8 novembre alla Città dell’Altra Economia a Roma.
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