La rivoluzione dolce di Baltimora (e la guerra ai poveri di Trump)

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Articolo di Leonardo Fiorentini su l’Unità del 29 luglio 2025.

Cinque. Tanti sono stati gli omicidi registrati nel mese di aprile 2025 a Baltimora. Un numero che, preso isolatamente, potrebbe dire poco. Ma nel contesto di una città di quasi 600.000 abitanti che nel 2019 contava 348 omicidi (quando in tutta Italia se ne registrarono 315), rappresenta un evento storico: è il dato mensile più basso registrato da quando, negli anni ’70, si iniziarono a raccogliere statistiche.

Un dato che non è isolato. I primi sei mesi del 2025 confermano una tendenza ormai consolidata: gli omicidi continuano a calare, le sparatorie anche. Da gennaio a giugno 2025 si sono contati 68 omicidi, contro gli 88 dello stesso periodo nel 2024. Le sparatorie non letali sono scese del 27%, e il totale degli omicidi si è ridotto di circa un quarto rispetto all’anno precedente. Se si guarda all’intero mandato dell’attuale sindaco Brandon Scott, il crollo è ancora più netto: -40% di omicidi e -43% di sparatorie rispetto al 2020.

Nel raccontare cosa sta succedendo a Baltimora, il rischio è quello di lasciarsi andare al trionfalismo. Lo sa bene il sindaco Scott, che pur celebrando i risultati non smette di ripetere che “cinque omicidi in un mese sono ancora cinque di troppo”. Ma proprio per questo, vale la pena di approfondire ciò che è accaduto nella città, già protagonista della serie The Wire.

Baltimora non ha mai avuto una storia facile, guadagnandosi negli anni anche il soprannome di “Bulletmore”, per la frequenza di sparatorie. È una città segnata da decenni di disinvestimenti pubblici, segregazione razziale, esclusione sociale, e naturalmente dalla repressione della war on drugs. Dopo le rivolte del 2015 seguite al decesso di Freddie Gray – per la cui morte, avvenuta mentre era in custodia su un cellulare della polizia, nessun poliziotto è stato considerato colpevole – il tasso di omicidi esplose, superando di nuovo i 300 casi l’anno. La risposta non poteva più essere solo più polizia o più carcere. Serviva un cambio di paradigma.

Ed è qui che, con l’elezione di Brandon Scott nel 2020, prende forma un approccio nuovo alla violenza urbana. Da una parte è stata avviata una strategia che individua i gruppi più coinvolti nelle dinamiche violente e li coinvolge direttamente, offrendo alternative reali – opportunità e percorsi di uscita, supporto sociale – ma anche mettendo in chiaro le conseguenze di nuovi atti violenti. Una combinazione di ascolto, responsabilizzazione e deterrenza, con al centro figure chiave come educatori di strada, ex detenuti e pari in grado di stabilire un contatto credibile con chi vive ai margini.

Dall’altra parte politiche che puntano a un approccio di salute pubblica al problema della violenza. Questo significa investire in programmi per i giovani, in servizi di salute mentale, di riduzione del danno da dipendenze. E ancora in spazi sicuri nei quartieri più emarginati, in politiche abitative, in alternative al carcere.

Un ruolo importante lo ha avuto anche la scelta di non perseguire i reati minori, a partire da prostituzione e uso di droghe, da parte dell’allora procuratrice generale della Città, Marilyn Mosby. Assunta nel 2019, in pieno Covid nel tentativo di frenare la diffusione del virus nelle carceri cittadine, la decisione venne poi confermata anche dopo l’emergenza. Il calo anche dei reati più gravi e violenti convinsero che andava interrotta quella spirale di emarginazione e violenza che politiche di “tolleranza zero” non fanno altro che esacerbare.

La chiave è dunque l’integrazione. Non solo polizia, non solo welfare, non solo prevenzione: ma una rete coordinata tra istituzioni pubbliche, comunità locali, polizia, operatori sociali, ricercatori e cittadini. Il tutto orientato a un obiettivo comune: ridurre la violenza puntando a salvare i rapporti sociali, il lavoro, la casa. Salvando le vite libere, piuttosto che continuare a rinchiuderle in galera. I risultati parlano chiaro. Nei quartieri in cui sono attive le politiche integrate l’indice di clearance – cioè i casi risolti dalla polizia – è salito al 64%, grazie al miglior rapporto con le comunità. E mentre scendono gli omicidi e le sparatorie, calano anche altri reati: furti d’auto, rapine, incendi dolosi.

Tutto bene, dunque? Non del tutto. Perché il successo di Baltimora si regge su un equilibrio fragile, messo a dura prova dal ritorno della retorica law & order, che mette in discussione quanto conquistato. Qui entra in campo il Presidente Trump, che giovedì scorso ha emanato un ordine esecutivo presentato come una misura per ristabilire l’ordine e la sicurezza nelle città americane, ma che si configura nei fatti come una strategia repressiva che criminalizza la povertà e la salute mentale e mina i diritti fondamentali delle persone più vulnerabili.

L’ordine impone innanzitutto restrizioni federali sui programmi di housing che non prevedano trattamenti obbligatori, ponendo sotto attacco diretto quelli ispirati all’approccio Housing First, ritenuti troppo permissivi. Poi vincola i fondi federali per città e stati all’adozione di politiche restrittive sul “vagabondaggio”, con il divieto di accampamenti, consumo di sostanze in luogo pubblico, permanenza prolungata in spazi urbani. Trump ordina al proprio Procuratore Generale di espandere le pratiche di civil commitment, ovvero la possibilità di sottoporre forzatamente le persone a trattamenti sanitari o ricoveri obbligatori se ritenute incapaci di prendersi cura di sé, incentivando l’uso di tribunali speciali per droga e salute mentale, con percorsi giudiziari paralleli volti al “recupero”, ma obbligatori e coercitivi. Inoltre pone il divieto di usare i fondi federali per la riduzione del danno o per le stanze del consumo sicuro “che facilitano solo l’uso illegale di droghe e i danni che ne derivano”. Infine, richiede, in barba al diritto alla privacy, una maggiore condivisione dei dati sanitari tra strutture mediche e autorità pubbliche, in funzione della sicurezza e dell’ordine urbano.

Negli USA sono stati stimati nel 2024 oltre 770.000 senzatetto, di cui circa il 36% senza alcuna forma di riparo. Come ha sottolineato la American Civil Liberties Union (ACLU) “utilizzare i finanziamenti federali per alimentare approcci crudeli e inefficaci al problema dei senzatetto non risolverà questa crisi”.

Perché, al di là dell’evidente disprezzo per la povertà e per diritti e dignità delle persone più vulnerabili, il punto è questo. Non solo si dimenticano le convenzioni internazionali sui diritti umani, ma si ignorano esperienze decennali di pratica sul campo che hanno dato evidenza di efficacia nel campo della salute mentale, dell’assistenza e della casa. Il tutto per dar spazio alla propaganda securitaria. Perché la mossa di Trump va collocata nel quadro della campagna elettorale per le midterm del 2026, in cui il Presidente punta a riconquistare consenso con una linea dura sull’ordine urbano. La retorica è quindi quella della guerra ai “criminali da marciapiede”, in piena continuità con le posizioni contro i migranti.

Così l’attacco ai programmi Housing First è puramente ideologico. Diversi studi hanno dimostrato che questo modello – che offre una casa stabile senza condizioni pregiudiziali – è il più efficace nell’affrontare la problematica dei senza fissa dimora, in particolare di quelli di lungo corso, a patto di essere adeguatamente finanziato. Ma per Trump e i suoi alleati, l’idea che la casa possa essere un diritto, e non una ricompensa a seguito di chissà quali meriti, è inaccettabile.

Trump apre così una nuova stagione di repressione sociale. La marginalità e il disagio non sono più degni di comprensione o assistenza: l’obbiettivo primario è espellerli dalla vista, che sia costringendoli in percorsi obbligatori di cura mentale o trasferendoli in quelle “città tendopoli” cupamente evocate dal candidato Trump durante la campagna presidenziale dello scorso anno. Circondate da discariche, come sta già succedendo, oppure magari in mezzo al deserto: veri e propri campi di concentramento, lontani dalla vista e dal cuore.

Sulla facciata di questo presente distopico rimane l’esaltazione, puramente formale, del diritto alla sicurezza, sventolato per pura propaganda; sul retro i diritti umani, trasformati in privilegi da guadagnare. Punire la povertà non significa certo cancellare i poveri, tantomeno prevenire reati. Anzi, l’uso della repressione penale, dei trattamenti sanitari obbligatori, della marginalizzazione che ne consegue non farà altro che peggiorare la situazione.

Per questo quello che sta accadendo a Baltimora ha un valore più ampio e va difeso. Non solo perché dimostra che le città possono davvero cambiare, se cambiano le politiche. Ma anche perché ci ricorda che la sicurezza – quella vera, quella che salva le vite umane e la vita nei quartieri – non si costruisce con le manette, ma con più cura, più ascolto, più responsabilità condivisa. Baltimora è un esempio concreto che un’altra strada è possibile. E funziona.

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