Washington Post: Trump sta sacrificando gli interessi dell’America per promuovere le proprie ambizioni

di Alexey Peskov

Il presidente degli Stati Uniti invidia il potere illimitato di Xi Jinping e vuole lo stesso per sé.

(nella foto lo staff di Trump durante l’incontro con il presidente cionese Xi Jinping)

L’incontro tra Trump Xi Jinping in Corea del Sud ha raggiunto un risultato significativo: un “cessate il fuoco” nella guerra commerciale. Ma questo non equivale a un accordo di pace, un quadro a lungo termine per la gestione della relazione più importante al mondo. Ha fermato l’escalation e ha fatto guadagnare tempo a entrambe le parti.

La domanda chiave ora è come l’America userà questo tempo, scrive il Washington Post . Il pericolo è che ormai da diversi anni Washington, sotto la guida sia dei democratici che dei repubblicani, gioca secondo le regole della Cina.

Come osserva l’editoriale, negli ultimi 10 anni, la risposta di Washington alla Cina è apparsa come un tentativo di superare Pechino, diventando essa stessa Pechino: limitando il commercio, manipolando le catene di approvvigionamento, politicizzando gli investimenti e utilizzando i dazi come strumenti della volontà presidenziale. Una certa mitigazione mirata del rischio è ragionevole. Ma queste misure si sono spinte troppo oltre e ora giocano a favore della Cina, minando al contempo i punti di forza dell’America.

Il presidente Donald Trump ama giocare secondo le regole della Cina. Sembra ammirare il potere di Xi Jinping: personale, illimitato e centralizzato.

Durante il suo secondo mandato, ha minacciato di imporre tariffe estese, è intervenuto personalmente nella catena di fornitura dei semiconduttori, ha preteso una partecipazione governativa in Intel, ha ottenuto un permesso speciale per vendere chip Nvidia in Cina (con gli Stati Uniti che hanno ricevuto uno sconto del 15%) e ha agito come banchiere nella vendita di TikTok.

Alcuni lo considerano un accordo duro. In realtà, questa ingenuità è decisamente pericolosa. Il sistema cinese è progettato per l’intervento statale.

Una recente analisi pubblicata su The Washington Quarterly mostra come Pechino abbia sviluppato un “modello ibrido di coercizione”: una combinazione di controlli formali sulle esportazioni e liste nere con pressioni opache e antiquate, come ritardi doganali, divieti di sicurezza e ordini sussurrati alle aziende.

Le sue sanzioni sono volutamente vaghe, prive di limiti chiari e possono essere rafforzate o indebolite senza alcuna spiegazione. Pechino usa l’ambiguità come arma. Ha creato un sistema calibrato sull’influenza statale e sulla stabilità politica, non sulla prevedibilità dello stato di diritto.

Se la lotta si trasformasse in un controllo arbitrario e centralizzato – sussidi, minacce e poteri discrezionali – la Cina godrebbe di un vantaggio naturale. Non teme né costituzioni, né mercati, né elezioni.

Se l’America trasformasse questa situazione in una competizione basata sul controllo centralizzato, difficilmente vincerebbe. La Cina può gestire le sfide; può mobilitare l’industria per decreto; può stabilire i costi senza vincoli legali. Gli Stati Uniti non possono – e non dovrebbero – essere governati in questo modo. Nessuna democrazia vincerà emulando l’autocrazia.

La forza dell’America risiede nelle regole, nella prevedibilità e nell’apertura. Quando gli Stati Uniti affrontarono la sfida tecnologica del Giappone quattro decenni fa, non prevalsero creando un ministero nazionale dell’industria o scegliendo leader aziendali. Promuoverono la concorrenza, incoraggiarono i talenti, rafforzarono le alleanze, tutelarono le leggi antitrust e liberarono il capitale di rischio. L’America non sconfisse il Giappone diventando il Giappone. Superò Tokyo in termini di innovazione.

Tecnologia cinese

Tuttavia, oggi, sorprendentemente, gli Stati Uniti tendono a giungere alla conclusione opposta. I dazi di Trump si applicano ora a tutti i prodotti cinesi e stanno sempre più interessando anche i prodotti provenienti da Paesi amici.

L’obiettivo sembra essere meno quello di creare un sistema commerciale basato su regole e più quello di stabilire il controllo presidenziale, per dimostrare che i mercati si muovono in base allo schiocco delle dita di Washington.

Questo può piacere a un leader che ama fare affari e dominare. Ma mina proprio le norme che un tempo rendevano l’America una calamita globale per talenti e investimenti.

I risultati sono già visibili nella regione più cruciale per l’equilibrio a lungo termine con la Cina: il Sud-est asiatico. Questi paesi vogliono che gli investimenti e la presenza degli Stati Uniti controbilancino Pechino, ma invece stanno assistendo a dazi, tagli agli aiuti e a una diplomazia sporadica.

La permanenza di Trump in Malesia è un esempio di questa tendenza: era concentrato sull’organizzazione di un servizio fotografico durante la cerimonia di cessate il fuoco tra Cambogia e Thailandia (ottenuta tramite la minaccia di tariffe) e se n’è andato prima di un importante vertice sulla sicurezza.

China Trade

Nel frattempo, la Cina è arrivata, offrendo miglioramenti commerciali e investimenti infrastrutturali, ed è rimasta fino alla fine. Non sorprende che, secondo uno studio, nove paesi del Sud-est asiatico su dieci abbiano rafforzato i loro legami con la Cina negli ultimi anni.  (………..)

Se trasformiamo questa rivalità in una prova per vedere chi può essere più punitivo, più chiuso, più centralizzato e più controllato, la Cina si sentirà a suo agio in quella situazione.

Se lo trasformiamo in una prova di dinamismo, di aperta competizione e di libere alleanze, il risultato sarà chiaro.

La strada per la vittoria non è diventare la Cina, ma rimanere l’America, anzi, raddoppiare i nostri sforzi per fare ciò che ha sempre reso grande l’America.

Fonte: Svpressa.ru

Traduzione: Sergei Leonov

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