Troppo piccoli per essere un bersaglio? Al contrario 

Un attacco alla supply chain: perché le grandi aziende non sono al sicuro anche se proteggono se stesse 

A metà settembre 2025, gli aeroporti di Berlino, Bruxelles e Londra hanno subìto ritardi, cancellazioni e disservizi a catena a causa di un attacco informatico che ha colpito un fornitore esterno: è la società responsabile del software MUSE, utilizzato per le operazioni di check-in e gestione bagagli. Il blocco, provocato da un malware, ha costretto gli scali a tornare temporaneamente a procedure manuali, rallentando l’intero flusso passeggeri e provocando ripercussioni su centinaia di voli. Non si è trattato di un attacco diretto alle infrastrutture aeroportuali, ma di un classico caso di supply chain attack: colpire un soggetto terzo, più vulnerabile, per generare danni ad aziende più grandi che altrimenti sarebbe difficile colpire. 

Cyberattacchi di questo tipo sono sempre più diffusi. Non si prende di mira il bersaglio finale, quello che avrà le effettive ripercussioni operative su larga scala, ma un fornitore tecnico, un subappaltatore, un nodo poco visibile della rete e in genere più indifeso. La logica è semplice: perché forzare la porta principale, quando si può entrare dalla finestra lasciata aperta da qualcun altro? È così che una singola vulnerabilità in un sistema esterno può mettere in ginocchio organizzazioni molto più strutturate, rallentando operazioni, interrompendo servizi essenziali o compromettendo intere filiere. La lezione è chiara: non basta proteggere sé stessi, se chi ti lavora intorno resta scoperto. 

Perché le piccole aziende continuano a non essere al sicuro  

Per anni si è diffusa l’idea che le piccole imprese fossero troppo irrilevanti per finire nel mirino dei cybercriminali. Oggi, però, rimanere fermi in questa convinzione è particolarmente rischioso. Le PMI rappresentano una fetta enorme del tessuto economico europeo, gestiscono dati, accedono a piattaforme condivise, scambiano documenti con clienti e fornitori, e spesso lo fanno con difese minime o assenti. In molti casi, sono proprio loro a offrire l’ingresso più facile a chi cerca di colpire soggetti più grandi. 

I numeri parlano chiaro: negli ultimi anni, gli attacchi rivolti alle PMI sono aumentati in modo costante. I criminali informatici sanno bene che, rispetto a una multinazionale, una piccola azienda ha meno risorse, meno personale dedicato alla sicurezza, e spesso una cultura digitale meno radicata. Questo le rende bersagli ideali non tanto perché strategici, ma perché facili da colpire. 

Il problema nasce quando le PMI non si percepiscono come parte di una rete critica. Si vedono ai margini, troppo piccole per interessare a qualcuno. Eppure è proprio da loro che possono partire violazioni in grado di compromettere la sicurezza di clienti più grandi, partner istituzionali o infrastrutture complesse. Non è questione di dimensioni, ma di esposizione. In un sistema interconnesso, ogni nodo conta. 

Postura di sicurezza: cosa significa davvero e perché conta anche se non sei una grande azienda 

Quando si parla di cybersicurezza, è facile pensare subito a firewall, antivirus o tecnicismi. Ma oggi è essenziale non tanto avere delle difese, quanto sapere in che stato si trova la propria organizzazione rispetto al rischio digitale. In una definizione: postura di sicurezza. 

La postura di sicurezza è una valutazione complessiva del livello di protezione e consapevolezza di un’azienda. Non riguarda solo le tecnologie adottate, ma anche le pratiche quotidiane, le abitudini del personale, la capacità di rispondere rapidamente a un incidente. È un indicatore di maturità, e anche una credenziale che sempre più clienti iniziano a richiedere ai propri fornitori. 

In termini pratici, significa porsi alcune domande semplici: 

  • I dispositivi aziendali sono aggiornati e protetti? 
  • Usiamo l’autenticazione a più fattori per accedere ai servizi critici? 
  • Facciamo backup regolari (e li testiamo davvero)? 
  • Il personale sa riconoscere un tentativo di phishing? 
  • C’è qualcuno in azienda che sa cosa fare se succede qualcosa? 

Avere una buona postura non significa essere invulnerabili. Ma significa essere preparati, sapere dove si è scoperti, e avere almeno un piano base per affrontare eventuali incidenti. Ed è proprio questo che, oggi, fa la differenza tra un fornitore affidabile e uno a rischio. 

Essere insicuri oggi può voler dire perdere clienti domani 

In un mercato sempre più interconnesso, la cybersicurezza non è solo una questione tecnica: è una variabile strategica. Molte grandi aziende e committenti pubblici hanno iniziato a valutare la solidità digitale dei propri fornitori, e chi non è in grado di garantire determinati standard rischia di essere escluso da gare, contratti o collaborazioni. 

Gli hacker, infatti, non vogliono colpire la PMI in quanto tale, ma spesso la usano come punto di ingresso per accedere a realtà più grandi. Rubano credenziali, si infiltrano nei sistemi condivisi, raccolgono informazioni. E lo fanno proprio perché il fornitore è operativo, integrato, inconsapevolmente esposto. Per l’azienda più piccola, l’impatto può comunque essere enorme: se il cliente scopre una violazione, anche solo potenziale, può interrompere la collaborazione per proteggersi. 

In questi casi, il rischio non è tanto l’attacco diretto, ma la perdita di affidabilità percepita. E con essa, la continuità del proprio business. Per chi lavora nella supply chain, dimostrare un livello minimo di cybersicurezza è diventato un requisito sempre più comune. La sicurezza, oggi, è anche una forma di credibilità, e chi non la garantisce rischia di restare fuori dal mercato, anche senza essere mai stato attaccato. 

Sicurezza digitale: da dove cominciare, anche (e soprattutto) se sei una PMI 

Parlare di cybersicurezza può far sembrare tutto troppo complesso, troppo costoso, o troppo distante dalla quotidianità di una piccola impresa. Ma oggi esistono azioni semplici, immediate e a basso impatto che possono fare una grande differenza. E soprattutto: non serve essere esperti né avere un reparto IT interno per cominciare. 

Qualche esempio? 

  • Attivare l’autenticazione a due fattori per email, piattaforme e gestionali. 
  • Tenere aggiornati i software, anche quelli “invisibili” come i sistemi operativi e gli antivirus. 
  • Verificare regolarmente i backup, e accertarsi che siano davvero recuperabili. 
  • Formare il personale sui rischi più comuni (phishing, allegati sospetti, link ingannevoli). 
  • Avere un piano di incident response, cioè di risposta immediata agli incidenti. 

Naturalmente, quando i flussi diventano più complessi, o si gestiscono dati sensibili, è utile avere un supporto esterno: per un audit, per un piano di risposta agli incidenti, o per adeguarsi alle normative.  

Ma la verità è che la maggior parte degli incidenti oggi avviene per disattenzione, non per tecnologia troppo avanzata. E questo significa che una buona parte della prevenzione è nelle mani di chi gestisce l’azienda, ogni giorno. 

Per chi vuole restare aggiornato su questi temi, esistono risorse gratuite e affidabili. Il blog di helmon raccoglie articoli chiari e utili pensati proprio per le PMI. E c’è una newsletter mensile – essenziale e gratuita – per chi vuole cominciare a proteggersi senza essere sommerso da tecnicismi. Perché il primo passo verso la sicurezza, oggi, è essere informati. Iscriviti, è gratuito! 

L’articolo Troppo piccoli per essere un bersaglio? Al contrario  proviene da Butac – Bufale Un Tanto Al Chilo.

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