L’immaginario per reagire al collasso

L’immaginario per reagire al collasso
In esplicita polemica con il mondo editoriale italiano, nel pamphlet La grande estinzione. Immaginare ai tempi del collasso (Armillaria 2019) l’antropologo e scrittore modenese Matteo Meschiari riflette sulla necessità di definire nuove strade narrative, oggi poco battute dalle nostre parti, per fronteggiare dal punto di vista del pensiero e dell’azione la crisi ecologica in atto e le più disagevoli prospettive che ci attendono dietro l’angolo, anche nella nostra breve durata di singoli esemplari di Sapiens.

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Le pagine rapide e irruente del pamphlet sostengono in tal senso che chi lavora per e sull’immaginario, primariamente scrittrici, scrittori e case editrici, dovrebbero emanciparsi dalla visione ritardataria della letteratura in cui spesso, nel nostro Paese, si sarebbe invischiati: una visione novecentesca, ego-riferita e dai toni queruli che genera libri al solo scopo di concorrere ai più prestigiosi premi letterari nazionali. Una visione manieristica e cieca (aggettivo da usare sulla scorta di quanto afferma Amitav Ghosh in La grande cecità) che insisterebbe nel rappresentare un mondo inattuale e rattratto nel breve passato degli ultimi decenni del secolo scorso, facendosi muovere da temi ormai vizzi come «l’epica borghese familiare, le storie di corna, i conti irrisolti con il terrorismo, l’alpe salvifica, le amiche geniali» e così a seguire, e tralasciando del tutto le vere questioni che incombono drammatiche sul nostro capo, come «la confusione climatica, la dissoluzione ambientale, la diaspora e la migrazione, le guerre di razza e religione, l’accanimento dei pochi sui molti, le nuove schiavitù, il neoliberismo cannibale».

Ascoltare altre voci per reagire all’Antopocene

Il discorso prosegue nel pamphlet successivo, Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo (Armillaria 2020). Qui, prendendo a mo’ di esempio vari lavori di autrici e autori stranieri tra cui Ursula Le Guin, Antoine Volodine e Jeff VanderMeer, Meschiari insiste sul medesimo argomento, individuando alcune strategie narrative utili a coinvolgere l’immaginario in un’inversione di tendenza necessaria e più che urgente. E questo non solo per colmare il vuoto editoriale di cui si sta parlando, bensì per renderci capaci, tutti, di affrontare con mente preparata le sfide sempre più quotidiane e traumatiche che caratterizzano e caratterizzeranno il nostro transito di specie sulla Terra. La letteratura, in Italia, dovrebbe allora seguire l’esempio dei nomi citati e abbandonare l’individualismo e l’eccezionalismo di uno sguardo troppo umano, per sottrarre al Sapiens il ruolo di protagonista della storia e pertanto includere nelle storie personaggi nuovi, integrando in un auspicabile orizzonte narrativo le persone non umane, i popoli, i paesaggi, le rocce, i ghiacci, gli astri e così a seguire.

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Detto altrimenti: per reagire al collasso dal versante dell’immaginario, bisognerebbe operare un salto cosmologico, questionare sul primato narrativo di chi scrive e raccontare altro, ascoltando e pronunciando le numerose voci, finora ignorate, che possano dar conto della complessità in cui, pur trincerandoci nelle nostre case climatizzate, siamo comunque immersi: «Immaginare il mondo come formato da realtà che sono tutte persone-personaggi è un modo per narrativizzare il nostro intero rapporto con la realtà. Non solo umani, ma anche non-umani, non solo la storia dell’uomo ma anche la storia del resto del pianeta. Questa traduzione in romanzo della vita, di tutta la vita, di tutte le vite, ha il vantaggio di rendere comprensibile la complessità».

Immaginare il futuro oltre la catastrofe

Un decisivo supporto a tale opera di «traduzione» può venire in tal senso da numerosi “ambiti disciplinari” molto eterogenei tra loro. La biologia e la geologia, per esempio, l’etnografia, lo studio delle cosmogonie antiche, lo sciamanesimo, l’epica e la favolistica: tutti strumenti di cui, sostiene l’autore, dovrebbe armarsi chi si appresta all’atto di narrare.

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Nel solco di tale proposito, ancora in Antropocene fantastico Meschiari riporta un’esemplificativa esperienza vissuta, da cui emerge chiara una riflessione: «Mi trovavo in Appennino senza un libro che fosse in grado di risvegliare in me l’essenza epica e cosmogonica delle terre che stavo guardando. […] Camminavo sapendo di tornare in pianura, ed ero immerso in una macedonia di angoscia e nostalgia senza conforto. Allora ho immaginato una ragazza o un ragazzo di quattordici anni […]. Scrivevano con una grafia pesante, fanciullesca […] di montagne che premevano da sotto il mare e migrazioni di testuggini verso l’Australia. Incendi che puzzavano di carne di animali bruciati e profumavano di eucalipto. Di volpi blu che escono dall’atmosfera terrestre e guardano dall’alto della ionosfera le concussioni delle deflagrazioni atomiche». Ecco, in breve, il modo in cui intendere la scrittura oggi per immaginare il futuro oltre la catastrofe che incombe.

Ibargüengoitia profeta in patria (alcuni anni dopo), di Livio Santoro

C’era la taiga, c’era un incendio: una ballata illustrata

Ed è proprio questo che tenta di fare anche Meschiari quando da polemista diventa appunto narratore. L’autore ha infatti di recente pubblicato per Logos C’era la taiga, c’era un incendio, una breve «ballata antropocenica», com’è definita sul sito della casa editrice, accompagnata dalle ombrose illustrazioni in scratchboard (tecnica che consiste nel grattare l’inchiostro da un foglio nero per far emergere immagini dal bianco sottostante) di Rocco Lombardi, artista con cui l’antropologo aveva già collaborato nel romanzo Neghentopia (Exòrma 2017).

Se in Neghentopia Meschiari e Lombardi seguono le vicende di un ragazzo-sicario perso in una sorta di viaggio espiatorio in un mondo successivo al collasso in cui le fiamme e le bestie hanno facoltà di parola, in C’era la taiga, c’era un incendio lo scenario muta di molto, per quanto è ancora la catastrofe il detonatore della narrazione. Nella ballata, favola in quindici strofe di dieci versi liberi e privi di punteggiatura, è un gruppo di animali a parlare, spinto da un gigantesco incendio che, come suggerisce il titolo, minaccia la taiga, la casa di tutte le specie.

«C’era la taiga c’era un incendio / la taiga era là da sempre / l’incendio era nato da un fulmine»: così inizia la ballata, dimostrando già nell’incipit la ricerca di una parentela con il racconto cosmogonico, in particolare germanico e norreno. Alla notizia dell’incendio, portata dai corvi, gli altri animali reagiscono discutendo sul da farsi: alcuni negano la veridicità della notizia, altri minimizzano; alcuni sostengono che solo i più forti sopravvivranno, altri ancora che dal disastro si potrà trarre vantaggio. Ma c’è anche chi incita tutti a restare uniti. Questo fin quando il fuoco arriva, per inghiottire la taiga e costringere tutti alla disperata ricerca di un nascondiglio. Ma l’incendio passa, il tempo passa, ed ecco la rinascita, l’emersione di un nuovo mondo, un’isola al centro di un lago risparmiata dalle fiamme in cui tutto può riprendere nuovamente: «la foresta era un ricordo / il mondo di prima era finito / ma il pesce mangiava l’insetto / l’uccello mangiava il pesce / il cervo moriva per il lupo / il lupo moriva per il verme». Ed ecco ancora una volta la parentela con il mito norreno, con il cominciamento successivo all’apocalisse infuocata del Ragnarök, il ripopolamento del nuovo mondo a partire dalle spoglie del precedente. Ecco un’altra possibilità di plurima vita, in una visione cosmogonica ciclica e corale in cui tuttavia le vicende del Sapiens, personaggio davvero secondario, rivestono un ruolo ormai soltanto ancillare.

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