Le mafie che ammazzano i figli, solo la memoria salva dall’oblio

Le mafie che ammazzano i figli, solo la memoria salva dall’oblio
Il 28 dicembre 1896 un colpo di fucile uccise Emanuela Sansone, 17 anni, che insieme ai suoi fratellini e alla mamma – Giuseppina Di Sarno (in alcuni articoli dell’epoca è riportato il cognome Di Sano o Basano) – si trovava nella bottega di famiglia in via Sampolo, alle spalle del carcere Ucciardone di Palermo. Come emerse dal rapporto firmato dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, alcuni mafiosi sospettavano che la madre della ragazza li avesse denunciati per fabbricazione di banconote false, dopo che avevano cercato di pagare dei generi alimentari con denaro contraffatto. L’obiettivo dei sicari era quindi Giuseppina, ma qualcosa andò storto e a morire fu Emanuela, la prima donna riconosciuta come vittima delle mafie. La madre della vittima iniziò a collaborare con gli inquirenti e si costituì parte civile nel processo che si aprì nel 1901. Molti degli imputati, anche grazie alle dichiarazioni fornite da eminenti personaggi dell’epoca, furono però scagionati. E come accadrà negli anni a venire, i colpevoli resteranno impuniti.

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Dalla morte di Emanuela è trascorso oltre un secolo e nel frattempo le mafie hanno continuato ad ammazzare bambine e bambini, ragazze e ragazzi: di rado si è trattato di uno scambio di persona, altre volte di un errore di mira o di una tragica fatalità, con le vittime colpite dai proiettili diventati schegge impazzite. Spesso, invece, dietro ai delitti ci sono ritorsioni, vendette contro un genitore o un parente che ha sgarrato. Ammazzare il figlio è la massima punizione per chi ha mancato di rispetto, per chi si è ribellato o ha violato le regole della criminalità organizzata. Dalla fine dell’Ottocento a oggi nella mattanza si contano più di cento vittime, alcune così giovani da non sapere ancora discernere tra bene e male.

21 marzo: la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia 

“Per molti anni la questione dei minorenni è stata trattata con pudore e riservatezza, non si voleva speculare sulle loro tragedie. Sull’inclusione nell’elenco del giovane Di Matteo, figlio di un boss, qualcuno storse il naso. Non è mai semplice fissare dei criteri”Daniela Marcone – Referente nazionale Libera per il settore Memoria

Daniela Marcone è componente della presidenza di Libera, referente nazionale dell’associazione per l’Area memoria e, soprattutto, la figlia di Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del registro di Foggia, ucciso il 31 marzo del 1995. La pagina internet Vivi – “un luogo di memoria viva consultabile in ogni momento” – raccoglie centinaia di storie di persone uccise dalla criminalità organizzata, corredate da immagini e testimonianze audio e video. “Per molti anni – spiega Marcone – la questione dei minorenni è stata trattata con pudore e riservatezza, perché non si voleva speculare sulle loro tragedie. Ricordo che sull’inclusione nell’elenco del giovane Di Matteo, figlio di un boss di Cosa nostra, qualcuno storse il naso: non è mai semplice decidere e fissare dei criteri di scelta. Dal 2015 nella nostra riflessione ha prevalso la volontà di evidenziare quelle tragedie di giovani vittime della cui innocenza eravamo sicuri”.

Franco Marcone, bambino

In questo articolo non sono citati i numerosi minori morti “accidentalmente”, senza avere alcun legame con le mafie. “Sono le vittime che mi hanno fatto più riflettere – aggiunge Marcone – perché temevo potessero perdersi nell’oblio. Negli anni Ottanta e Novanta la stampa le definiva ‘persone che si sono trovate nel luogo sbagliato al momento sbagliato’, ma è solo uno stereotipo narrativo che non ha alcun fondamento. Penso che nei loro confronti il riconoscimento sociale debba essere ancora più forte, nessuno è mai morto per caso, le mafie agiscono con crudeltà e senza umanità, dimostrando una violenza primitiva che esclude qualsiasi casualità”.

Nel nome del padre

Quando Giovanni Brusca e gli altri fedelissimi del clan di Salvatore Riina sequestrarono, uccisero e sciolsero nell’acido Giuseppe Di Matteo, 15 anni, figlio del pentito Santino mezzanasca, l’indignazione pubblica fu enorme. Quasi come se solo in quel momento –  siamo alla fine degli anni Novanta – le persone avessero realizzato che le mafie non si sarebbero fermate dinanzi a niente e nessuno. Altro che codice di onore. L’assassinio del giovane Di Matteo fu certamente atroce nelle modalità, ma non segnò alcun cambio di passo nel modus operandi della criminalità organizzata. La storia racconta che non c’è mai stata coscienza nei sicari e nei mandanti, lo dimostrano i fatti avvenuti nel passato più remoto, quando le mafie hanno ammazzato senza rimorsi o pietà, convinte che fossero i più piccoli a dover pagare le colpe dei più grandi.

Più di cinquant’anni dopo l’omicidio di Emanuela Sansone, il 3 gennaio 1949, Vito Guarino, 3 anni, fu ucciso a colpi di mitra e bombe a mano nella sua abitazione di Partinico, in provincia di Palermo. Il vero obiettivo dei sicari era suo padre Carlo Guarino, che come il bimbo morirà nella carneficina. 
Tre anni aveva anche Domenica Zucco, uccisa con un colpo di fucile all’addome a San Martino di Taurianova, in provincia di Reggio Calabria, il 3 ottobre 1951. Nel mirino dei killer c’era il padre della piccola, Domenico Zucco, che un anno prima era stato coinvolto nell’omicidio di Girolamo Fedele. Il fratello di quest’ultimo, Vittorio, pensò di vendicarsi sparando all’impazzata verso Domenico e le sue bambine, ferendole gravemente. Domenica morirà in ospedale dopo una lunga agonia.

Il 26 giugno 1959 Anna Prestigiacomo, 15 anni, venne uccisa con due fucilate mentre si trovava nel cortile di casa, nel rione San Lorenzo di Palermo, insieme alla sorellina Rosetta. Il movente è probabilmente riconducibile a una vendetta nei confronti del padre, che la mafia credeva un confidente dei carabinieri.
Stessa sorte per Antonino Pecoraro, 9 anni, e suo fratello Vincenzo, 19 anni, che morirono a Godrano, in provincia di Palermo, il 26 ottobre 1959, sotto i colpi di lupara esplosi da due mafiosi che volevano uccidere il padre Francesco, rimasto ferito.

21 marzo, Ciotti ai mafiosi: “Fate emergere la verità”

Brutale fu l’esecuzione avvenuta il 19 gennaio 1965 a Sant’Eufemia d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, dove due sicari spararono contro Concetta Iaria e i suoi quattro figli, mentre dormivano tutti nello stesso letto. La donna e il figlio Cosimo Giuffrè, 12 anni, morirono sul colpo, mentre gli altri tre bimbi – fra cui la piccola Carmela di appena cinque mesi – rimasero feriti. Una storia assurda, che ebbe inizio quando Antonino Iaria, il suocero di Giuseppe Giuffrè, padre di Cosimo, aprì un bar accanto a quello del genero. La gelosia tra parenti divenne insostenibile e così Iaria decise di rivolgersi a due sicari per eliminare Giuffrè. A morire però saranno i killer, innescando una vendetta che culminerà con la morte di madre e figlio.

Altra vicenda che all’epoca fece molto scalpore, oltrepassando i confini siciliani, coinvolse tre bambine di 7, 9 e 11 anni: le sorelle Ninfa e Virginia Marchese e Antonella Valenti. Il 22 ottobre del 1971 le piccole sparirono misteriosamente a Marsala, nel Trapanese, dove su un mandato d’arresto emesso dal giudice Cesare Terranova (che la mafia ucciderà a Palermo nel 1979) fu arrestato Michele Vinci, zio di Antonella, ribattezzato dalla stampa “il mostro di Marsala”. Durante l’interrogatorio l’uomo confessò di avere rapito le bambine per stuprare Antonella e avere poi gettato in una cava Ninfa e Virginia. Nel processo emerse, però, che dietro il rapimento di Antonella poteva esserci una vendetta contro il padre Leonardo Valenti, colpevole di uno sgarro a Cosa nostra. Nel 1989 Paolo Borsellino riaprì le indagini, poi archiviate per mancanza di prove.

L’Italia è ancora inebriata dalla vittoria al Mondiale di calcio in Spagna, quando il 31 luglio 1982 a Roccanairola, in provincia di Napoli, Filippo Scotti, 7 anni, venne ucciso insieme al padre Luigi, un pregiudicato di 52 anni appena uscito dal carcere. I due stavano viaggiando a bordo di una Vespa, quando i killer aprirono il fuoco ferendo a morte anche il bambino seduto dietro. 
Domenico Cannatà e Serafino Trifarò morirono a San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, il 12 novembre del 1983. Avevano rispettivamente 11 e 14 anni quando furono coinvolti in una sparatoria che aveva come bersaglio il padre di Domenico, Vincenzo Cannatà, che riuscì a mettersi in salvo. Il 39enne, pregiudicato e vicino ad ambienti della criminalità organizzata, prese il figlio agonizzante in braccio e lo portò all’ospedale di Gioia Tauro, per poi fuggire e fare perdere le proprie tracce.

I familiari delle vittime di mafia al Parlamento: “Diritti, non benefici”

Il 1° luglio 1990 a Milazzo, in provincia di Messina, Giuseppe Sottile, 13 anni, venne scambiato per il padre Felice, invischiato in affari di droga, e ucciso a colpi di pistola. 
Domenico Nicitra, 11 anni, fu rapito a Roma insieme allo zio il 21 giugno 1993 e mai più ritrovato. Era il figlio del boss di Palma di Montechiaro Salvatore che in quel momento si trovava in carcere. 
Andrea Savoca fu ucciso a 4 anni a Palermo, il 26 luglio 1991, mentre si trovava in braccio al padre Giuseppe, un rapinatore di camion, anche lui deceduto nell’agguato. A sparare furono i sicari del clan Riina, che con il duplice omicidio vendicarono uno sgarro.

Da grande Raffaella Lupoli, 11 anni, pare volesse fare la giudice. Suo padre Antonio, un metalmeccanico disoccupato con problemi di droga, era il vero obiettivo dell’agguato avvenuto al quartiere Tamburi di Taranto, il 10 giugno del 1997, dove perse la vita la ragazzina. A sparare fu un ventenne incensurato, che esplose quattro colpi. Uno ferì alla mano il genitore,gli altri tre raggiunsero la piccola che morì durante la corsa in ospedale.
Luca Cottarelli, 17 anni, fu ucciso a Urago Mella, in provincia di Brescia, il 28 agosto 2006 insieme ai suoi genitori, su ordine della mafia trapanese, al culimine di un regolamento di conti legato a una maxi truffa ai danni dello Stato e della Regione Sicilia.

Domenico Petruzzelli, 3 anni, morì il 17 marzo 2014 a Palagiano, in provincia di Taranto, insieme alla sua mamma, Maria Carla Fornari di 30 anni. La donna era alla guida di un’auto sulla quale viaggiavano anche il compagno, Cosimo Orlando, già condannato per un duplice omicidio e da poco in semi libertà, e altri due bambini. I sicari speronarono la vettura ed esplosero decine di proiettili, tre dei quali uccisero il piccolo Domenico, morto mentre era in braccio al papà.

(fine prima parte)

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