La morte di Musa Balde insegna che i centri per il rimpatrio dei migranti vanno chiusi

La morte di Musa Balde insegna che i centri per il rimpatrio dei migranti vanno chiusi
Lo chiamano ospedaletto, ma non ha nulla di un luogo di cura. Le immagini satellitari di Google restituiscono la fotografia di un casermone dove l’unico spazio esterno concesso per prendere un po’ d’aria è un piccolo cortile al di fuori di ogni stanza, coperto da un’inferriata: una gabbia. È qui che vengono confinate alcune persone trattenute nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) dei migranti di Torino. Ed è qui che si è tolto la vita Moussa Balde, un 23enne del Gambia che agli inizi di maggio era stato vittima di un pestaggio da parte di tre ragazzi italiani, ora indagati a piede libero.

Per il giovane guineano, privo dei documenti in regola, l’aggressione ha aperto le porte del Cpr. “Non riesco più a stare rinchiuso qui dentro: quanto manca a farmi uscire? Perché sono stato rinchiuso?”, chiedeva il ragazzo al suo avvocato, Gianluca Vitale, due giorni prima di annodarsi un lenzuolo intorno al collo.

“Sulla vicenda di Moussa abbiamo appreso qualcosa che, se confermato, sarebbe molto grave: al momento del suo arrivo al Cpr e probabilmente fino alla fine, chi aveva in custodia il ragazzo non è stato messo a conoscenza né dalla Questura di Imperia né dall’Asl dell’aggressione che aveva subito e ne aveva determinato il ricovero”, hanno detto il capogruppo di Liberi Uguali Verdi, Marco Grimaldi, e il consigliere del Partito Democratico e vicepresidente della Commissione Sanità Domenico Rossi dopo un sopralluogo nel Centro di Torino. Una struttura in cui il decreto Salvini del 2018 ha ridotto drasticamente i servizi e il rapporto fra i detenuti e gli operatori. L’istituto prevede 16 ore settimanali di assistenza psicologica per 100 persone, altrettante di assistenza legale, 5 ore al giorno di presenza medica, e 36 ore settimanali di mediazione culturale. Gli operatori diurni sono quattro, quelli notturni solo due. 

“Un luogo come questo non è in grado di gestire la sofferenza, ma la fa esplodere, a maggior ragione per chi viene da una storia di vulnerabilità. La detenzione amministrativa è una profonda ingiustizia e chi la subisce lo avverte”, concludono Grimaldi e Rossi. 

Lo chiamano ospedaletto, ma è una gabbia. È qui che è morto Moussa Balde, 23enne del Gambia, che a inizio maggio era stato vittima di un pestaggio da parte di tre ragazzi italiani 

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Centri per il rimpatrio, sei morti da giugno 2019 a oggi

Da giugno 2019 a oggi, Balde è la sesta persona morta nei Centri per il rimpatrio dei migranti (Cpr). La seconda solo a Torino, dove sempre nella zona dell’ospedaletto nel luglio del 2019 ha perso la vita Hossain Faisal: un bengalese di 32 anni, ufficialmente morto per arresto cardiaco. Se ha chiesto aiuto, nessuno l’ha sentito: l’area è lontana dall’edificio principale e priva di un sistema di videosorveglianza. Ma, secondo molte associazioni a tutela dei diritti umani, il problema va oltre Torino ed è strutturale. 

Alda Re, attivista di LasciateCIEntrare, campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti, definisce i centri “un’aberrazione”. “Al loro interno – dice – ci sono persone che spesso non sanno perché sono finite lì né conoscono le tutele legali cui hanno diritto. La società civile non se ne occupa. Oggi siamo indignati, ma domani la vicenda sarà dimenticata e tutto tornerà come prima, fino alla prossima tragedia”.

Tragedie che, come ha notato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è difficile non considerare il sintomo di luoghi “non sempre in grado di proteggere e tutelare la vita delle persone”. La morte di Balde è la dimostrazione del fallimento di un sistema che non solo criminalizza le migrazioni, causando sofferenze a chi lo subisce, ma è anche inefficiente e costoso. 

La morte di Balde è la dimostrazione del fallimento di un sistema che non solo criminalizza le migrazioni, causando sofferenze a chi lo subisce, ma è anche inefficiente e costoso

Cosa sono i Cpr

La creazione dei Centri per il rimpatrio risale al 1998, quando il Testo unico sull’immigrazione voluto da Livia Turco e Giorgio Napolitano, ha introdotto il trattenimento delle persone in attesa di espulsione. Il tempo massimo di permanenza era fissato a 30 giorni: periodo poi raddoppiato con la Bossi-Fini e allungato ancora di più dal primo decreto sicurezza a firma di Matteo Salvini che l’ha alzato a 18 mesi, ridotti poi a 90 giorni dall’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese.

Nati come Centri di permanenza temporanea e assistenza, i Cpr hanno assunto il nome attuale con la legge Minniti-Orlando del 2017 che prevedeva di ampliarne l’utilizzo e aprirne uno in ogni regione. I Centri di permanenza per il rimpatrio si andavano così a configurare come l’ultimo anello di una politica migratoria che punta a una esternalizzazione dei confini attraverso accordi con i Paesi d’origine e transito dei migranti, negando di fatto il diritto alla mobilità. 

Non esistono informazioni pubbliche che permettano un monitoraggio dei Cpr. L’ultimo elenco disponibile sul sito del Ministero dell’interno ne conta dieci. Al momento, però, quelli in funzione sembrano otto, collocati in altrettante città: Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Milano, Torino, Roma, Palazzo San Gervasio (Potenza), Bari, Brindisi, e Macomer (Nuoro). Mentre le persone presenti, al 30 aprile 2021, erano 229.

La legge stabilisce la reclusione al loro interno, quando non è possibile “eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento”. 

Previsti come estrema ratio, i centri sono diventati “luogo di privazione della libertà per ex detenuti che avevano già scontato la propria pena, persone che avevano perso il lavoro e con esso il diritto a restare in Italia o persone che vivevano di lavoro nero, richiedenti asilo e vittime di tratta”, scrive sulla rivista Left  Stefano Galieni, concludendo che queste strutture “per come sono pensate, per la funzione che svolgono, per l’assenza di garanzie reali, dal diritto alla difesa alla difficoltà per gli operatori dell’informazione di entrarvi e verificare le condizioni di vita, sono irriformabili e vanno chiuse”. 

Quattro ragioni per chiudere i Cpr

Le principali ragioni per cui i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) andrebbero chiusi sono quattro:

inefficacia;
costi;
condizioni di vita disumane;
la discrezionalità lasciata alla polizia nel decidere il trattenimento dei cittadini stranieri all’interno di questi luoghi.

1. L’inefficacia

L’obiettivo ufficiale dei Cpr è il ritorno nel Paese d’origine delle persone trovate sul territorio italiano senza un valido permesso di soggiorno. Valutando quanto riescono a farlo è evidente il primo paradosso: l’inefficacia del sistema. Maurizio Veglio, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), parla di “un fallimento che va avanti da oltre venti anni”. Analizzando i dati si nota che la quota di migranti transitati nei centri, e poi effettivamente rimpatriati, non ha mai superato il 50 per cento. Nel 2018, su 4092 persone trattenute ne sono tornate in patria 1768. Nel 2019, sono state 2992 su 6172.

 “La percentuale è rimasta più o meno invariata nel corso degli anni, indipendentemente dal tempo massimo di permanenza all’interno delle strutture stabilito dai vari governi – assicura Veglio –. L’altra metà dei migranti ha riottenuto la libertà dopo un periodo di sofferenze terribili e inutili”.

Una situazione diventata paradossale durante la prima ondata di contagi da Covid-19, quando “il governo ha scelto di mantenere attivi i centri nonostante la chiusura delle frontiere e, quindi, il blocco dei rimpatri a cui la detenzione amministrativa dovrebbe essere finalizzata”, denuncia Gennaro Santoro, consulente della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili.

La scelta ha reso il trattenimento illegittimo, come hanno scritto diverse associazioni in una lettera aperta indirizzata ai Giudici di pace, cui spetta il compito di convalidare o rinnovare le misure restrittive, dimostrando che la funzione dei Cpr va oltre il rimpatrio della popolazione irregolare. 

“La quota di migranti transitati nei centri, e poi effettivamente rimpatriati, non ha mai superato il 50 per cento” Maurizio Veglio – avvocato dell’Asgi

2. I costi

Legati a doppio filo all’inefficacia ci sono i costi di gestione dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), che viene affidata dalle prefetture ai privati. Anche in questo caso un monitoraggio è difficile: non esistono dati pubblici per conoscere le spese complessive, ma un’idea la possono dare alcuni bandi pubblicati. L’ultimo riguarda il Cpr di via Corelli, a Milano: per un anno è previsto un corrispettivo di un milione e 400mila euro (iva esclusa): circa 42 al giorno per ospite.

Ai soldi spesi per far funzionare le strutture si aggiungono i costi per i lavori di riparazione dei danni causati dalle frequenti rivolte delle persone trattenute e i costi per i rimpatri. L’importo più recente fissato in un decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale lo scorso marzo quantifica in 1.905 euro la cifra media prevista per il trasferimento di ogni straniero nel suo Paese d’origine per il 2021. Tariffa in aumento del 30 per cento rispetto ai 1.398 euro previsti l’anno precedente.

3. Condizioni di vita inumane

Un quadro delle condizioni di vita all’interno del Cpr lo dà l’ultimo rapporto del Garante nazionale, che ha visitato le strutture tra il 2019 e il 2021. In molti casi, si legge nel documento, le condizioni degli edifici non sono accettabili: mancano spazi, luce, riscaldamento, mobili. I trattenuti non hanno vestiti, dormono su materassi vecchi e senza lenzuola. 

Anche le condizioni igieniche sono spesso carenti, con bagni fuori uso e finestre rotte. Per esempio, nel Cpr di Pian del Lago, a Caltanissetta, sulle otto docce presenti al momento della visita ne funzionavano due: una per padiglione. Pesa, poi, la totale assenza di attività. A differenza delle carceri, “le persone sono costrette a un ozio forzato e soggette a una serie di regole che variano di struttura in struttura. Non esiste una legge organica che regola la vita all’interno dei centri e definisce le modalità di trattenimento”, spiega Massimiliano Bagaglini, responsabile dell’unità Migranti e privazione della libertà del Garante.

“Non esiste una legge organica che regola la vita all’interno dei centri e definisce le modalità di trattenimento” Massimiliano Bagaglini – Garante nazionale delle persone private della libertà personale

Così ogni istituto fa da sé, adottando a volte misure in aperta violazione dei diritti delle persone trattenute. Un esempio è il telefonino. Quasi tutti i centri ne hanno disposto il sequestro all’ingresso, soprattutto dopo che i cittadini stranieri hanno iniziato a inviare video e foto all’esterno per denunciare le condizioni di vita nelle strutture. Peccato non esista nessuna legge che vieti l’utilizzo degli smartphone, tanto che il tribunale di Milano ha accolto il ricorso presentato da un giovane tunisino, cui era stato impedito di poter usare il proprio dispositivo. 

Un altro problema è l’assistenza sanitaria, affidata a chi gestisce i Cpr e non al servizio sanitario nazionale. La presenza di molti tossicodipendenti e malati psichici richiederebbe un forte coinvolgimento dei servizi sanitari locali, sottolinea l’autorità. Al servizio sanitario nazionale spetta solo di valutare le condizioni di salute del migrante prima dell’ingresso nel centro. Ma nei fatti, in molti casi, il certificato di idoneità alla vita all’interno della struttura viene rilasciato dal medico dell’ente gestore. Un mancato controllo che non solo è “contro la legge”, ma toglie al cittadino straniero la garanzia di essere valutato da un soggetto imparziale. 

4. La discrezionalità della Polizia

La detenzione amministrativa pone anche un problema di compatibilità costituzionale del Testo unico sull’immigrazione. La norma attribuisce il potere di decidere il trattenimento nei Centri di permanenza per il rimpatrio alla polizia: una discrezionalità che va oltre i casi eccezionali e urgenti previsti dall’articolo 13 della Costituzione italiana. La misura deve essere poi confermata da un giudice di pace. Ma “in quasi tutti i casi – conclude Veglio – i giudici convalidano il provvedimento dopo udienze molto brevi e senza adeguate indagini, delegando di fatto alla polizia il ruolo di assoluta protagonista”.

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