Il narco Raffaele Imperiale è in carcere, ma la caccia al suo tesoro prosegue

Il narco Raffaele Imperiale è in carcere, ma la caccia al suo tesoro prosegue
Un’impresa con un giro di affari che finora ha movimentato 23 miliardi di euro generando profitti per i soci che superano i 500 milioni. Se fosse una società, la sede sociale sarebbe a Dubai (Emirati arabi uniti), avrebbe succursali a Napoli, Amsterdam, Dublino e Bogotà e punti vendita in tutto il mondo. Si tratta del cartello di narcotrafficanti di cui Raffaele Imperiale, il “boss dei Van Gogh” e mente imprenditoriale dei clan di camorra a Scampia, è stato uno degli amministratori. Adesso il broker della droga è in carcere, dove sta scontando una condanna a cinque anni dopo essere stato estradato da Dubai nel marzo 2022. A inizio ottobre è stato raggiunto da un’altra ordinanza di custodia cautelare perché coinvolto insieme ad alcuni esponenti della ‘ndrangheta in un traffico di cocaina dalla Colombia a Gioia Tauro. Anche i suoi soci sono incappati in disavventure giudiziarie. Ora il network viene guidato da uomini di fiducia dei fondatori, ma il suo futuro sembra a rischio anche perché gli inquirenti sono riusciti a penetrare nel sistema di comunicazioni criptate (Encrochat e  SkyECC) che per decenni li aveva fatti impazzire: fino al 2016 del camorrista avevano sentito la voce solo per alcuni istanti quando dagli Emirati aveva contattato l’Italia dimenticando di avviare il sistema di copertura.

Narcotraffico, il nemico corre veloce

La rete internazionale del broker Raffaele Imperiale

Nel 2002 il broker ne investe una minima parte (meno di mezzo milione) per comprare due Van Gogh rubati al museo di Amsterdam: li consegnerà anni dopo, quando da Dubai deciderà di patteggiare

Dopo anni di lavoro degli inquirenti di mezzo mondo, a partire dalla Drug enforcement administration (Dea, l’ente federale antidroga deli Stati Uniti), e alle rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia tra i quali Gennaro Carra, sono stati individuati i complici e, tassello dopo tassello, se ne stanno ricostruendo il giro di affari, le alleanze e i delitti commessi negli ultimi venti anni. Il cartello che Imperiale aveva creato con l’irlandese Daniel Kinahan, il bosniaco Edin Gacanin Tito, il marocchino-olandese Ridouan Taghi e il cileno Richard Eduardo Riquelme Vega è stato per anni uno dei gruppi leader del commercio della cocaina. Tutto ciò è stato possibile anche grazie all’asse di ferro creata con il colombiano Dairo Antonio Úsuga, meglio noto come Otoniel, ex combattente delle Farc poi riciclato nel campo degli stupefacenti fino a diventare uno degli uomini più ricercati dagli Stati Uniti, che sulla sua testa avevano messo una taglia da cinque milioni di dollari. 

Gli esordi nei Paesi Bassi

Ma quella di Imperiale è un’impresa che viene da lontano, come ha raccontato lui stesso ai magistrati nella memoria affidata nel 2018 al suo avvocato, Maurizio Frizzi. Alla fine degli anni ’90, infatti, “Lelluccio” eredita dal fratello Samuele (detto Sami) il Rockland cafè di Amsterdam dove già lavorando, facendo un po’ il barista e un po’ il corriere della droga. Tramite Antonio Orefice, uno del clan Moccia, entra poi in contatto con gli scissionisti di Scampia, uno de due clan che per un decennio ha rifornito di droga le piazze di Scampia trasformando il rione nel supermarket dell’eroina e della cocaina, e riesce a rifornirlo di una enorme quantità di stupefacenti grazie al rapporto con Rick Van de Bunt, noto ad Amsterdam come “Il biondo”. Rick è proprietario di un altro coffee shop, il Betty Boop, fa affari con i narcos sudamericani e compra enormi quantità di cocaina che stocca per poi rivenderla a grandi intermediari. Il biondo accetta di rifornire Imperiale e i suoi che così inondano Napoli di droga. Gli affari si moltiplicano, gli incassi pure e nel 2002 il broker ne investe una minima parte (meno di mezzo milione) per comprare due Van Gogh rubati al museo di Amsterdam: li consegnerà anni dopo, quando da Dubai deciderà di patteggiare con la giustizia italiana che lo accusa di traffico internazionale di stupefacenti.

Afragola, clan e politica campano sugli abusivi

I problemi a Napoli

Nel 2003, però, le cose sembrano a mettersi male, e il sistema rischia di andare in crisi. A Napoli, infatti, il capoclan Paolo Di Lauro già negli anni Novanta aveva organizzato un cartello capace di monopolizzare il commercio degli stupefacenti vendendo a prezzi stracciati, mettendo insieme sette azionisti (Paolo Di Lauro, Raffaele Amato, Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, Patrizio De Vitale, Antonio Leonardi, Enrico D’Avanzo) per un’impresa di successo. Ma dalla fine degli anni Novanta, proprio grazie al rapporto esclusivo con Raffaele Imperiale, uno degli azionisti (Amato) può controllare un proprio canale di rifornimento. Di Lauro, che è un uomo d’affari d’esperienza, si accorge presto che i conti non quadrano: qualcosa si è inceppato nel meccanismo accuratamente costruito in anni e anni di traffici e morti ammazzati. Per mettere Amato nell’angolo chiede di cambiare la “composizione societaria” del suo gruppo destinando una quota al figlio Cosimo Di Lauro al quale delega poi la gestione quando è costretto alla latitanza. F1, “Figlio uno” come lo chiamano nel clan, gioca subito d’azzardo e tenta di trasformare i soci del padre in dipendenti. Ovviamente scoppia la rivolta e la guerra falcia cento vite, tra le quali tante di vittime innocenti. Poi Cosimo viene arrestato (è morto in cella recentemente), Amato vince la battaglia e gli affari riprendono alla grande fino al 2008 quando anche Van De Bunt, il complice olandese, viene ammazzato. 

Il trafficante era stato in rapporti con la Dea, aveva riciclato enormi quantità di denaro attraverso una società immobiliare delle Andorre, aveva fatto da esca in un processo di corruzione in Olanda e infine, tramite il suo avvocato, Maurizio Frizzi (lo stesso di Imperiale), aveva patteggiato con i magistrati italiani una pena di otto anni per traffico di stupefacenti. Ma in carcere non è mai tornato perché nella notte tra il 9 e il 10 febbraio 2008 è stato ucciso all’uscita di un ristorante di Madrid. A quel punto Imperiale, restato senza fornitori, si ritira a vita privata a Dubai. O, almeno, questo sostiene nel suo memoriale. Ma già nel 2015 quando parte la prima ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti, i magistrati sanno che in realtà il boss aveva già stabilito contatti diretti con i narcos. I gregari di Imperiale, infatti, erano già stati fotografati in Ecuador e in Colombia. Ad esempio Vincenzo Aprea, poi condannato a 8 anni di reclusione per traffico internazionale di stupefacenti, ha una nipote che ha sposato il nipote di un trafficante, tal Peñaranda Diaz Miguel Brando con il quale viene immortalato a Lima nel 2012. Poi la sua presenza viene documentata anche in Ecuador e in Colombia. Seguendo Aprea viene scovato un carico che viene poi bloccato dagli inquirenti in Perù.

Colombia, pace fatta. Anzi no. Gli accordi tra governo e Farc non hanno fermato le violenze che continuano a colpire i più vulnerabili

Gli affari da Dubai

I cinque amici, l’italiano, l’irlandese, il bosniaco, il marocchino e il cileno, avevano un sesto amico in Colombia: Dairo Antonio Úsuga, detto Otoniel, leader del clan del Golfo

Intanto Imperiale, senza perdere i contatti napoletani, ha stretto altre alleanze. Nel 2017 a Dubai, nel lussuosissimo hotel Burj Al Arab, la Dea fotografa gli invitati al banchetto di nozze di un altro re della coca, l’irlandese Kinahan: c’è “Lelluccio”, ci sono Ricardo Vega e Ridouan Taghi. In quell’occasione, riportano molti siti di giornalismo investigativo (tra gli altri Insider e Irpimedia), l’agenzia statunitense stila un rapporto in cui sostiene che i quattro gangster hanno importato cocaina per almeno 23 miliardi di euro collocando la loro impresa tra le cinquanta più pericolose del mondo. 

Kinahan al momento è ancora libero anche se – riferisce Wikipedia – “il 12 aprile 2022, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato l’offerta di ricompense fino a cinque milioni di dollari nell’ambito del programma Narcotics Rewards per informazioni che portino all’arresto e/o alla condanna dei membri della famiglia Kinahan”. L’uomo è figlio d’arte (suo padre Christopher, secondo la polizia irlandese, sarebbe stato tra i primi a importare eroina a Dublino) ed è anche un affermatissimo manager della boxe che continua a vivere serenamente a Dubai.

Taghi, invece, a lungo ha vissuto in Olanda dove è arrivato giovanissimo da Bni Selmane. Abbandonati gli studi in scienze dell’educazione, ha creato quella che poi sarà conosciuta come Mocro maffia (in generale, le organizzazioni di narcotrafficanti di origine marocchina basate in Olanda e Belgio) e poi, grazie anche alla collaborazione con Imperiali, è riuscito a impadronirsi dell’accesso ai porti olandesi garantendo sbarchi sicuri alla merce che arriva dal Centro America. È stato arrestato anche lui a Dubai nel 2019 ed è sospettato di essere dietro l’uccisione del giornalista investigativo olandese Peter de Vries, avvenuta il 15 luglio 2021 ad Amsterdam. 

Anche Edin Gacanin Tito, pur essendo nato a Sarajevo, si è trasferito presto in Olanda per poi spostarsi a Dubai. Su di lui si sono concentrate le attenzioni delle polizie di mezzo mondo e sua sarebbe parte della cocaina sequestrata nel corso dell’operazione Major che ha coinvolto le forze di polizia del Perù (da lì proveniva la droga), della Spagna e della Serbia. Sempre da Dubai arrivava Richard Eduardo Riquelme Vega, cileno cresciuto in Olanda, quando è stato arrestato dalla Dea nel 2017 a Dubai per poi essere trasferito nel 2018 in Olanda con l’accusa di aver fatto parte anche lui della Mocro maffia.  

I cinque amici, l’italiano, l’irlandese, il bosniaco, il marocchino e il cileno, avevano un sesto amico in Colombia: Dairo Antonio Úsuga, detto Otoniel che è stato arrestato in Colombia e poi trasferito negli Usa nell’aprile del 2022. Per prenderlo nella sperduta provincia colombiana ai confini con il Panama sono stati impiegati 500 soldati supportati da 22 elicotteri. Il gruppo di cui era, e forse è ancora, leader, il clan del Golfo, potrebbe contare su più di 1500 uomini.

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La caccia al tesoro continua

Quella di cui Imperiale era “azionista” era come una società per azioni nata in Olanda che aveva trasferito la sede sociale a Dubai. Un’azienda con importanti basi logistiche in tutto il mondo, con migliaia di dipendenti. È per questo che gli inquirenti sono convinti che gli arresti e i sequestri che la hanno decimata (solo nella zona nord di Napoli i carabinieri ad aprile hanno sequestrato 500 chili di cocaina e la squadra mobile ne ha presi 150 a marzo) non possono aver azzerato gli affari e cercano i nuovi soci che stanno mandando avanti l’azienda. Ma soprattutto i magistrati stanno cercando di mettere le mani sulle “cartiere”, le società fasulle che sono servite a riciclare i miliardi guadagnati dall’organizzazione. 

Non sarà facile. Nei confronti di Imperiale and company esistono moltissimi procedimenti separati in diversi continenti dove si muovono singoli Paesi con ordinamenti diversi, molti dei quali ignorano totalmente la specificità della criminalità organizzata. L’organizzazione criminale, invece, si muove con agilità tra norme internazionali create per facilitare il movimento del capitale e prospera tranquillamente nei paradisi fiscali. Le carte buone sembrano tutte in mano ai delinquenti, ma in spogli uffici di mezzo mondo uomini e donne spesso malpagati continuano a inseguire i miliardi che inquinano i mercati legali.

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