Fast fashion, la moda insostenibile che distrugge il pianeta e sfrutta i lavoratori

Fast fashion, la moda insostenibile che distrugge il pianeta e sfrutta i lavoratori
T-shirt vendute a 5 euro, pantaloni che ne costano 10, scarpe che possono essere portate a casa sborsandone appena 20. Cifre che non stupiscono, perché rappresentano la normalità in un numero sempre crescente di negozi, soprattutto all’interno dei centri commerciali o lungo le più affollate vie dello shopping (per non parlare degli e-commerce). E durante i saldi, il fenomeno è ancora più evidente: con 15 euro si possono riempire interi carrelli, reali o virtuali. Ma perché molti indumenti costano così poco? Com’è possibile produrli e commercializzarli a cifre tanto irrisorie? La risposta è racchiusa in un binomio inglese semplice e didascalico: fast fashion, moda veloce.

Cos’è la fast fashion: definizione e caratteristiche di una moda insostenibile

Nell’accostamento di questi due termini c’è già un bel pezzo di spiegazione su cosa significano. Sotto la definizione di fast fashion, infatti, rientra quel filone della moda internazionale fatto di abiti e accessori caratterizzati da due elementi:

bassi costi di produzione e vendita;
velocità di immissione nel mercato.

Il primo ad utilizzare il termine fast fashion fu il New York Times, nel lontano 1989, per presentare il primo negozio di Zara aperto nella città statunitense. Il giornalista che coniò il fortunato neologismo lo utilizzò per descrivere un nuovo modello di business che di lì a qualche anno sarebbe diventato dominante nel settore. Un modello produttivo capace di rendere disponibili sul mercato in tempi rapidissimi (quick response, nel gergo della logistica) abiti molti simili a quelli proposti dalle grandi firme sulle passerelle di alta moda, ma con prezzi decisamente più bassi. Un intento in apparenza lodevole per un’operazione che fu “venduta” come una forma di democratizzazione dei consumi. I bei vestiti cessavano di essere appannaggio di pochi eletti e diventavano alla portata di tutte le tasche.

I numeri della moda fast

Il meccanismo della fast fashion ha funzionato. Nel giro di 30 anni (ma soprattutto dal 2000 in poi), gli armadi si sono allargati a dismisura, riempiendosi di magliette, gonne, pantaloni e completi destinati a soddisfare un bisogno di acquisto compulsivo. La domanda è cresciuta, alimentata da un’offerta sempre più ampia. E viceversa. Le famose due collezioni annuali, autunno/inverno e primavera/estate, sono diventate presto un ricordo, sostituite da ben 52 cambi di stagione, praticamente uno a settimana. Tanto elevata, infatti, è la frequenza con cui rimodellano le loro proposte i grandi brand della fast fashion., da H&M a Primark, dalla già citata Zara a Pull&Bear. Uno sforzo creativo che si traduce in 100 miliardi di prodotti  commercializzati in 12 mesi (una media di 14 capi a persona), il 60% in più rispetto a 15 anni fa. Ma che fine fanno tutti questi vestiti? Riempiono gli armadi e le discariche. In 3 casi su 5, infatti, passano dal guardaroba alla spazzatura dopo solo un anno. E nel frattempo rischiano anche di non venire indossati: capita nel 55% dei capi femminili e nel 47% di quelli maschili. Un atteggiamento di sfacciato consumismo reso possibile proprio dai prezzi stracciati. Il carattere economico della moda fast, però, è solo un’illusione ottica. Molto salati, infatti, sono i costi occulti che questo modello produttivo provoca, soprattutto ambientali e sociali.

 

I costi ambientali e sociali: quanto inquina la fast fashion?

Dal punto di vista dell’inquinamento, la situazione è molto seria. Il settore della moda, infatti, ha un’impronta ecologica pesante. Secondo i dati raccolti nel 2017 da Sustain your style, il comparto utilizza ogni anno 215 trilioni di litri d’acqua nei suoi processi produttivi e sversa negli affluenti ben 200 mila tonnellate di coloranti. In pratica, l’industria fashion è responsabile del 20% dell’inquinamento delle risorse idriche e di un terzo delle microplastiche presenti nei corsi d’acqua (a causa del lavaggio dei capi sintetici). Sembrano numeri assurdi, ma non lo sono affatto se si pensa che per produrre una sola maglietta servono ben 2700 litri di acqua e che un paio di calzini è in grado di disperdere nell’ambiente 136 mila fibre sintetiche. Non va meglio con l’atmosfera, dove la moda immette annualmente ben 1,2 tonnellate di gas serra. 

Più difficili da fotografare, ma non meno salati, sono i costi sociali della moda veloce. Per consentirsi la vendita di capi di abbigliamento a pochi euro, infatti, le case di moda hanno messo in piedi un modello produttivo capace di abbattere i costi ad ogni livello, applicando senza scrupolo politiche di delocalizzazione selvaggia, decurtazione dei salari e riduzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori. Si risparmia su tutto, ed è così che la filiera tessile è diventata quella a maggior rischio di schiavismo. A farne le spese sono soprattutto i Paesi del sud est asiatico dove questo commercio è più florido, come Bangladesh, Sri Lanka e Cambogia.

Refashion e slow fashion: nuove tendenze sostenibili nell’armadio

Appare evidente, quindi, che dietro lo sbandierato intento “democratico” della fasta fashion si nasconde invece una realtà gravemente dannosa per il pianeta e per le persone. Alla crescita di questo fenomeno, però, da alcuni anni fa da contraltare l’intensificarsi di un movimento critico che va sotto l’etichetta di Slow Fashion. Il richiamo chiaro è allo Slow Movement, che professa la diffusione di modelli di consumo sostenibili, in quanto rispettosi del pianeta così come dei diritti delle persone e degli animali. Nell’ambito della moda, il movimento Slow Fashion promuove le aziende che si sforzano a produrre abbattendo i costi sociali e ambientali dell’industria tessile. Dal lato del consumatore, questo significa scegliere di acquistare meno capi, che costano di più ma sono di qualità migliore. Una costola ancora più radicale e creativa di questo approccio è rappresentata dalla moda del re-fashion, che propone capi di vestiario realizzati con stoffe di riciclo. Abiti di seconda mano utilizzati per crearne di nuovi, spesso completamente diversi. Il filone è interessante, anche per i grandi marchi. Non a caso, già da alcuni anni, a New York la tradizionale settimana della moda, appuntamento glamour dalla risonanza internazionale, è seguita da una sempre più apprezzata Refashion Week. Il pericolo, però, è che la moda mainstream cannibalizzi anche questo spazio, piegandolo ai suoi interessi.

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